La legislazione


PUO' UNA LEGGE CREARE LA QUALITA'?
Uno sguardo alla legislazione in materia di valorizzazione dell'architettura

di Antonello Simeone

Nella civiltà dei consumi e della comunicazione molte categorie di beni e prodotti sono codificate in “categorie di qualità”, spesso prodotte da processi di tutela geografica o tipologica, non di rado assistite da complessi apparati normativi e legislativi, più volte giustificate da ragioni puramente commerciali e di interesse “mercantile”.
Ci si può chiedere, quindi, legittimamente, se anche per l’Architettura si possa, o sia giusto, pensare ad un “marchio di qualità” codificato… Per ragionare, allora, di “qualità nella legislazione per l’Architettura” non si può omettere di fare riferimento a due testi primari, per molte ragioni, tra loro diversi, nel merito e nella forma: la nostra Carta Costituzionale (“Costituzione della Repubblica Italiana”) e la notissima Loi n.77‑2/1977 “sur l’Architecture”.
All’articolo 9 della Carta, infatti, si legge: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”: già nel 1945, quindi, i Costituenti sentirono la necessità, inserendola nella parte prima, inderogabile, della Legge Fondamentale, di evidenziare l’importanza, per lo Stato, di promuovere la cultura, la ricerca e la tecnica, concetti non a caso accompagnati e correlati alla tutela del
paesaggio, del patrimonio storico e delle manifestazioni dell’Arte.
E’ da intendere, certamente, questo, come un chiaro richiamo alla centralità del concetto di qualità della ideazione e, qui, particolarmente, dell’Architettura, in quanto strumento straordinario e insostituibile per perseguire il pubblico interesse oltreché mezzo elettivo per la
costruzione di un patrimonio culturale condiviso e maturo.
Pur chiaramente espressa nella Costituzione, la centralità sociale e culturale della qualità architettonica è rimasta a lungo, in Italia, una pura enunciazione di principio, superata e mortificata tanto dalla deregulation anglosassone, che dall’ipertecnicismo di ambito germanico, che dall’ntellettualismo francese, esso, sì, capace di concepire, all’pice delle trasformazioni urbane degli anni Sessanta/Settanta, quello che ancora oggi è considerato, ad oltre trent’anni dalla sua promulgazione, il principale testo europeo sull’architettura.
La Loi sur l’architecture, infatti, enuncia, specie nei suoi primi 8 articoli, alcuni principi, semplici, ma essenziali ed efficaci, che rappresentano una prima declinazione del concetto di “Qualità in
Architettura”; qui i più incisivi e coerenti: “L’Architecture est une expression de la culture”: è l’incipit dell’articolo 1 che si pone come postulato imprescindibile; (…) la creazione architettonica, la qualità delle costruzioni, il rispetto dei paesaggi naturali o urbani assumono valore di interesse
pubblico e le autorità deputate al rilascio delle autorizzazioni al costruire si assicurano, nel corso delle relative procedure, del perseguimento di questi obiettivi (art.1);
chiunque intenda procedere alla realizzazione di opere soggette ad autorizzazione a costruire deve rivolgersi ad un architetto (art.3);
(…) il progetto architettonico si definisce coerentemente attraverso tutti quegli elaborati grafici che possano esprimere, compiutamente, le caratteristiche dell’insediamento, i principi compositivi degli edifici, la loro organizzazione funzionale, i materiali costitutivi, i colori, ecc. (art.3);
(…) vengono creati i “conseil d’architecture, d’urbanisme informazioni e sviluppo della sensibilità e dello spirito di partecipazione delle comunità in merito ai temi dell’Architettura, dell’Urbanistica e dell’Ambiente: essi, inoltre, favoriscono, promuovono e vigilano sulla
qualità architettonica soprattutto in riferimento all’uso dell’ambiente e alle trasformazioni in atto sul paesaggio urbano e rurale (art.7).
Cosa ricavare da tali enunciazioni? Innanzitutto l’affermazione precisa, forte e assiomatica che l’Architettura è una espressione della cultura e, quindi, componente costitutiva del
patrimonio collettivo di socialità, storia, memoria, ecc, e, come tale, valore inalienabile, non derogabile o commercializzabile, responsabilità primaria dello Stato e delle sue Istituzioni, a qualsiasi livello; conseguentemente, che la qualità architettonica si declina, innanzitutto,
a partire dal rapporto tra costruito e ambiente, naturale e antropico, secondo i suoi significati funzionali, tecnici, formali ed estetici e che il suo linguaggio d’elezione (il disegno) debba essere, anche per questo, compiuto, corretto, chiaro, curato, comprensibile, …
Vi si trae, poi, l’affermazione della insostituibilità del ruolo dell’”Architetto” e la necessità di condividere, con la collettività, gli interventi di trasformazione del territorio e del paesaggio
urbano e naturale, attraverso i linguaggi propri dell’Architettura e dell’Urbanistica.
Sono assunti, questi, che costituiscono, altresì, l’idea guida della risoluzione n.13982/00 del Consiglio dell’Unione Europea del 12 gennaio 2001 nella quale, tra l’altro, si stimolano gli Stati membri “ad intensificare gli sforzi per una migliore conoscenza e promozione dell’architettura e della progettazione urbanistica, nonché per una maggiore sensibilizzazione e formazione dei committenti e dei cittadini alla cultura architettonica, urbana e paesaggistica” nonché
“a promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica”.
E in Italia? Il velo di silenzio sulle vicende dell’Architettura, e sulla sua qualificazione, in particolare, si incomincia a disvelare a partire dalla metà degli anni Novanta in occasione del lungo (e spesso improduttivo) dibattito intorno alla cosiddetta “Legge Melandri” che,
oltre il suo sostanziale fallimento, ha avuto il merito, se non altro, di richiamarsi, almeno idealmente, ai principi sanciti nell’art.9 della Costituzione ragionando, soprattutto nelle Opere Pubbliche, non più solo in termini di appalti, procedure, penali, capitolati, ecc.
Nessun risultato concreto, però (che fine ha fatto quel “Manifesto degli Architetti Italiani” tanto propagandato dal CNA dopo il Congresso di Torino dell’ottobre 1999?), di lì trascinando il dibattito sempre più verso il basso, sino alla attuale XVI Legislatura, ove, non senza una certa sorpresa, sulla qualità architettonica, ben tre Disegni di Legge risultano presentati al Senato: il ddl 1264 proposto dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali ed altri “Legge quadro
sulla qualità architettonica”, il ddl 327 d’iniziativa del senatore Zanda “Legge quadro in materia di valorizzazione della qualità architettonica e disciplina della progettazione”, il ddl 1062 del senatore Asciutti ed altri “Legge quadro sulla qualità architettonica”.
Nuovo brio? Nuova esuberanza legislativa? Nuovo intenso, approfondito e fervido dibattito intellettuale, protagonisti l’intelligenthia più dinamica e avanzata del nostro tessuto culturale,
la politica più progressista e riformatrice e, ovviamente, il mondo professionale, con in testa quello degli Architetti…? o invece…?
...Invece, tra qualche slancio illuminato e qualche timida affermazione concretamente innovativa, vi traspare un approccio banale, mediocre e poco coraggioso lì dove, invece, per lo stato attuale delle cose, sarebbero necessarie e improcrastinabili assunzioni decise, audaci e, finanche, spericolate: appare questo un chiaro segnale che ognuno dei tre testi proposti sia frutto non di un dibattito ampio, coinvolgente e compiuto, aperto ai politici, ai tecnici, al mondo culturale e artistico e, soprattutto, alla società civile (e se l’Architettura è espressione della cultura,
non sarebbe potuto essere altrimenti…!!!), ma una sorta di affermazione assoluta, vaga e un po’ formale, senza anima e vigore, che non può trovare semplicistica giustificazione nella necessità, sancita dall’art. 117 della Costituzione, di limitarsi esclusivamente a “principi quadro” nell’ambito di materie concorrenti. Diamo uno sguardo sommario ai contenuti dei disegni di legge...
Il testo proposto dal senatore Zanda (ddl 327), introducendo nell’ordinamento la nozione di “qualità architettonica”, afferma il concetto che la progettazione architettonica debba assurgere a direttrice primaria della cultura contemporanea e che, conseguentemente, essa costituisca patrimonio di una società avanzata divenendo diritto dei cittadini: inoltre, accanto ad
alcuni concetti riferiti alle modalità di svolgimento dell’attività professionale, stabilisce alcuni criteri perché si perseguano “obiettivi di qualità” nell’ambito delle opere pubbliche, prevedendo lo stanziamento di somme annuali per l’incentivazione della qualità del progetto, soprattutto, attraverso il ricorso ai concorsi di progettazione.
E’ questo il testo che appare più vicino, almeno nello spirito, alla Legge francese e che, se non altro, considera l’Architettura di qualità come processo coerente capace di recepire quelle esigenze di carattere funzionale ed estetico poste a base della progettazione e della
realizzazione dell’opera, garantendo il suo armonico inserimento nel paesaggio e nell’ambiente circostante (art. 2).
Il ddl 1062 presentato dal senatore Asciutti definisce la qualità urbana e architettonica come una componente della qualità della vita nelle città in uno scenario, sedimentato diacronicamente,
fatto di aggregati urbani (non più città) e contesti paesaggistici irrimediabilmente modesti e sgradevoli, frutto dell’approssimazione professionale, dell’insensibilità imprenditoriale, della incompetenza amministrativa e del disinteresse delle comunità; propone, inoltre, un “Piano per la qualità delle costruzioni pubbliche” (art.12) e una “Fondazione per la qualità architettonica e dell’ambiente costruito” (art.13).
Le mozioni formulate da Asciutti, in qualche modo, completano e integrano quelle di Zanda soprattutto in merito all’introduzione di organismi di promozione e ricerca, consulenza, produzione e salvaguardia del patrimonio documentale (un po’ alla stregua dei conseil francesi) e alla individuazione di uno strumento operativo, a redazione biennale, che indichi settori e progetti prioritari dai quali trarre i migliori risultati in termini di qualità delle costruzioni (il Piano di cui all’art.12), stanziando le risorse annuali necessarie alla sua attuazione (2,5 milioni di euro a partire dal 2009).
Più modesto per argomentazioni e intenzioni appare, invece, proprio il testo governativo che, proposto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ha visto il concerto dei Ministeri della Gioventù, delle Infrastrutture, dell’Istruzione, dei Rapporti con le Regioni e dell’Ambiente ed è stato approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 19 novembre 2008 per essere poi sottoposto al Senato, il successivo 5 dicembre, per il conseguente iter parlamentare.
Il ddl 1264, infatti, si limita ad una riproposizione, poco coraggiosa e decisa, di vecchie assunzioni ormai superate da anni di dibattiti, a volte tristemente “introversi”, qui trattate, per di più, in maniera generica e poco incisiva (un paradosso se le si pensa proposte proprio dall’Esecutivo) facendo riferimento esclusivamente alle Opere Pubbliche (art.1) per le quali, un po’ sterilmente, si ribadisce la necessità prioritaria di procedere attraverso i concorsi di progettazione, riservando premi speciali ai giovani (art.3).
Si delinea poi il riconoscimento del valore artistico delle opere di architettura contemporanea (art.4) immaginando premi (si badi bene di carattere non economico - art.5) agli enti pubblici o privati che abbiano commissionato opere di rilevante interesse architettonico o urbanistico;
anche il testo ministeriale propone la redazione di un Piano per la qualità architettonica (art.9) e la creazione di un Centro nazionale per la documentazione e la valorizzazione delle arti contemporanee (art.8) finalizzato a “(…) promuovere la conoscenza della cultura del patrimonio
architettonico e urbanistico mediante iniziative culturali, nonché(…) la costituzione di centri territoriali di documentazione(…)”: alla fine non poteva mancare la riproposizione della famosa, quanto inapplicata, Legge sulle opere d’arte nei nuovi edifici pubblici, nota come “legge del
2%”.
Insomma, come è ben evidente ai lettori più attenti: “niente di nuovo sotto il sole…!!!”, anzi… c’è da essere seriamente preoccupati e Il disegno di legge, di fatto, si riferisce esclusivamente alle opere pubbliche ed è rivolto alle Pubbliche Amministrazioni considerate solo come stazioni appaltanti, trascurando che i lavori pubblici rappresentano una percentuale minima di quanto complessivamente costruito e, spesso, già di per sé, di migliore qualità rispetto all’edilizia
corrente e privata, essa sì, spesso, vero emblema della “non‑qualita” architettonica: non sono precisate soluzioni orientate a creare “qualità” non sono proposte metodologie o approcci che possano guidare gli Uffici Tecnici, o altre istituzioni appositamente incaricate, alla verifica del valore della progettazione, non sono individuate risorse finanziarie dedicate (tutto dovrà essere a “costo zero”), non è innescato un processo di maturazione culturale d’insieme che abbia
protagonista l’intera collettività e la società civile, non è attivato un “percorso virtuoso” nel quale coinvolgere, soprattutto, gli istituti scolastici e le agenzie formative.
Sostanzialmente ci si limita alla retorica esaltazione dei concorsi di progettazione, “panacea di tutti i mali”, (come se l’esperienza italiana abbia sin qui dimostrato la loro efficacia o inattaccabilità rispetto alle prassi incancrenite di assegnazione degli incarichi), al demagogico
riferimento ai “giovani”, come necessario ingrediente per innovare (come se “giovane” (e chi scrive non ha ancora compiuto i Quaranta) sia solo colui che lo attesta anagraficamente, attentamente eludendo che, ad esempio, “creativamente dinamici” erano il settantaquattrenne Le Corbusier del Piano di Meaux, o il centenario Niemeyer dell’Auditorium di Ravello), al ribadito obbligo di riserva di destinazione del 2% dell’importo dei lavori ad opere d’arte (come se
una legge risalente al 1949, disattesa per più di mezzo secolo, possa improvvisamente rivivificarsi, o come se la “buona architettura” non possa essere considerata, di per sé, “opera d’arte”).
Ovviamente eludendo attentamente di riconoscere che la “Qualità” si raggiunge innanzitutto se “di qualità” sono, nel contempo, i professionisti (certo non quelli a cui si annullano le garanzie finanziarie minime liberalizzando lo scempio delle tariffe, incrementando, contemporaneamente, le responsabilità e gli adempimenti), gli imprenditori (spesso costretti a confrontarsi con un mercato tutt’altro che “puro” e trasparente), i funzionari pubblici (spesso incapaci anche solo di comprendere coerentemente la progettazione), le procedure autorizzative, le normative
e i regolamenti (contraddittori, inadeguati, carenti o inutilmente sproporzionati), e così via, e che la “Qualità” ha il suo costo in termini di aggiornamento professionale, adeguamento progressivo front/back, trasparenza, responsabilità,…
Diverso il panorama regionale? In Puglia, con la Legge Regionale 10 giugno 2008, n.14,
un’Amministrazione che intende rappresentarsi come innovativa, progressista e partecipata ha emanato un testo normativo che, riprendendo quanto da anni già “trito e ritrito”, non innova, non delinea “progressi”, non favorisce la partecipazione: anche qui, dopo le solite affermazioni di principio ci si risolve nella semplicistica attestazione che i concorsi di idee e di progettazione sono
“la principale garanzia per conseguire le finalità di qualità delle opere di architettura” (art.5), senza, però, dettare livelli di prestazioni, metodologie di relazione, regole di impegno, soprattutto, per le Pubbliche Amministrazioni.
D’altra parte quanto si confidi nella bontà e concreta applicabilità della Legge lo dimostra il fatto che, ad un anno dalla sua promulgazione, l’amministrazione regionale non ha ancora emanato nemmeno il Regolamento di cui all’art.16 e, tanto meno, ha soddisfatto gli impegni che
essa stessa aveva assunto ai precedenti articoli…
E allora la domanda iniziale dovrebbe più coerentemente derubricarsi in: può una legge creare la Qualità in Architettura? O, piuttosto, può solo limitarsi a delineare un contesto culturale e di opportunità volto a renderla concretamente raggiungibile, salvaguardando la buona progettazione e penalizzando quella mediocre, premiando (anche finanziariamente) gli approcci coerenti e maturi, semplificando le procedure, liberando il lavoro professionale da quella pletora di complessità e artificiosità inutili e dannose il cui soddisfacimento, troppo spesso, appare surrogare la qualità della progettazione? Se l’Architettura (e la sua ideazione, la sua creazione, la sua realizzazione, la sua qualità, la sua innovatività, la sua importanza sociale, l’essere testimonianza, l’essere memoria, l’essere testo collettivo, ecc.) è espressione della cultura, non è più coerente chiedersi se questa società, e i suoi modelli culturali dominanti, sono pronti, oggi, per una nuova qualità della progettazione?

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