Terremoto de L'Aquila


L'AQUILA: LE TRE CITTA'
di Antonello Simeone

L’Aquila oggi, a ben guardare, può pensarsi come tre città, tra loro apparentemente diverse, eppure ognuna essenza e significazione dell’altra, comune traccia e direzione per percorsi, immagini, segni, rappresentazioni, … La prima città è quella della memoria.
La città che ha sostenuto l’urto del terremoto, ha sopportato l’inefficienza umana, ha subito l’inganno della speculazione e ora giace, ferita e ripiegata, protetta solo dalla volta del cielo e dalla tela del ricordo… Forse richiama Armilla o, ancora di più, Zaira, la città che “(…) non
dice il suo passato, ma lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere (…)”1: è la città che si mostra e si racconta, fiera e orgogliosa, finanche attraverso le sue distruzioni e il suo silenzio, è la città che rende evidente la propria debolezza, che non cela la sua tragedia, non modera il suo dolore…
È una città come assente, nel distacco dei suoi abitanti, nel deserto delle vie, delle piazze, del mercato, nel torpore dell’andare e dello stare, nel silenzio agli angoli e agli incroci, nell’immagine del futuro… ove, a volte, non si riconoscono più strade, palazzi, monumenti, spazi urbani…
Eppure rimane, potente, risoluto, immutabile, un “genius urbis”, custodito dalla memoria, protetto nell’identità, nella storia, nel progresso del tempo e delle vicende singolari, in una città non tracciata dagli urbanisti o progettata dagli architetti, ma edificata dagli uomini, dalle loro storie, dal loro quotidiano vivere, dal comune sentire, dai valori condivisi, dal cum‑patire…
La città della memoria racchiude il suo essere e il suo significarsi nei pieni costruiti e nei vuoti urbani, oltre le pure configurazioni fenomeniche, oltre il suo “recinto” fisico (Umfriendung), oltre la conta dei crolli o la valutazione dei danni, nel profondo del suo patrimonio umano e nella ricchezza degli ideali della sua comunità.
Così può “(…) restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostrando in esse bellezze o rarità
particolari. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una nota”2, perpetuandosi oltre la distruzione, oltre il suo disegno fisico, oltre la sua configurazione spaziale e temporale…
La seconda città è quella della provvisorietà.
È questa una città colorata come i suoi panni stesi ad asciugare, sottile come le sue tende allineate, vociante come i suoi bambini nuovamente per le strade, ma è anche la città ove tanto di quello che prima appariva scontato, normale e ordinario ora diventa difficile, faticoso, da conquistare…
E’ la città che vive nelle tendopoli, che gioco forza unisce, che sopporta la promiscuità, che affonda nel fango della pioggia, che soffre ai primi caldi, che rende complesse anche le più semplici e
quotidiane azioni personali, che annulla ogni forma di riservatezza e di riparo…
Ma è anche la città che crea nuova umanità, che avvicina chi prima, pur prossimo, difficilmente si considerava, che dà vita a nuove relazioni, realizza nuove solidarietà, che, anche per necessità, sollecita al reciproco sostegno, rianima i rapporti interpersonali, rinsalda i legami e i valori sociali, edifica una comunità nuova…
È questa una città “a tempo”, “fuori dal tempo”, “vittima del tempo”, transitoria e precaria:
sottile nei suoi segni visibili, profonda nella sua sofferenza, una città che, alla sottigliezza
delle sue protezioni fisiche, contrappone lo spessore dei rapporti umani, richiamando,
costantemente, la memoria del passato, pensando ad una idea del futuro, condivisa e radicata, non in un “dovunque” teorico e indefinito, ma lì dove è la propria storia, la propria comunità, il proprio Essere…È una città “ponte” che, per questo, raccoglie e raduna, conserva le sue
storie, tramanda i suoi valori, racconta ogni suo angolo, ogni sua piazza, ogni sua strada, rianimando la memoria…
La terza città è quella dell’immagin(azione). È la più impercettibile e la più impalpabile delle tre, perché è quella che risiede nella mente e nel cuore degli uomini, nel loro desiderio di futuro, nella personale idea di città…
È un po’ “Fedora”, “città azzurra che si rinnova per ognuna delle sfere di vetro, in ognuna delle stanze del palazzo di metallo”, che si costruisce e si trasforma incessantemente nel progressivo
immaginare e costruirsi delle idee.
È la città che a tutti (indipendentemente dal ruolo, dalle esperienze, dalla professionalità, dalle competenze) piace frequentare e nella quale ci si compiace di riservarsi il proprio ruolo di “creatore”, “progettista”, “inventore”, ignorando le città della memoria e della provvisorietà, fantasticando di infiniti piani perfetti, tracciando teorie di strade, piazze, palazzi, botteghe, monumenti, ma senza suoni, senza luci, senza voci, senza segni, senza uomo, senza vita….
Il rischio, allora, è quello della “plastic town”, della città‑immagine, il rischio è che l’urbanistica, e l’idea originaria della città, divengano, per l’ennesima volta, puro strumento di propaganda (come la Berlino di Speer o la Parigi di Mitterand), pianificando senza storia, senza memoria, senza uomo, alla ricerca spasmodica e frenetica di una città perfetta solo in quanto ordinata, asettica, accurata, ma priva di anima, dinamismo, suono, vita, ove l’uomo non è misura della progettazione, ma, esclusivamente facitore di investimenti immobiliari o, peggio, oggetto da collocare “correttamente” in apposite case‑caselle (come a Créteil o a Gibellina nuova),
ove la storia e la memoria sono un ingombrante fardello del quale velocemente liberarsi, sacrificate sull’altare dell’algida immagin(azione) e della città‑senza‑città.

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