Eventi. Mario Botta a Copertino


PROBLEMI APERTI... DELL'ARCHITETTURA CONTEMPORANEA
MARIO BOTTA: ARCHITETTURA E SPAZI URBANI COME MEMORIA COLLETTIVA


di Anna Esilia Gigante


Sullo sfondo delle mura della sala angioina del castello di Copertino, l’architetto Mario Botta (Accademia di Architettura di Mendrisio – Università della Svizzera Italiana) presentato
dal Prof. Fabio Minazzi (Università degli Studi dell’Insubria), ha fatto scorrere le immagini di alcune delle sue più importanti realizzazioni, tra cui: Biblioteca Municipale a Dortmund, Germania; Galleria d’arte contemporanea Watari-Um a Tokyo, Giappone; Chiesa Beato Giovanni XXIII a Seriate, Italia; nuova parrocchia del Santo Volto a Torino, Italia; Cantina Petra a Suvereto, Italia; Torre Kyobo a Seoul, Corea del Sud.
La conferenza è stata organizzata il 4 maggio 2009 dalla Città di Copertino all’interno di Intellégo (problemi aperti del pensiero contemporaneo - VIII ciclo), una rassegna di incontri culturali
patrocinata da Unione dei Comuni Union 3, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Università del Salento, Regione Puglia, Provincia di Lecce, Istituto “G. Comi” di Tricase e Istituto “E. Medi” di Galatone.
Non si riesce a restare indifferenti davanti alle architetture di Mario Botta e, ancora meno, dalla sua capacità di raccontarle o, meglio, di raccontare dell’Architettura, quella con la “A” maiuscola che tocca i punti cruciali del nostro vivere e del nostro relazionarci con il mondo e con gli altri. In effetti, l’architetto afferma subito, senza mezzi termini, che dei vari aspetti dell’architettura, lui vuole affrontare quello più intimo: “la vocazione ad essere espressione della cultura del tempo
in cui si colloca”. L’architettura è il riflesso della storia al di là della forza espressiva del singolo architetto, a cui si deve riconoscere un proprio linguaggio. L’architettura, per Botta, è quindi espressione formale del tempo, traduzione in “segno” dell’economia e della tecnologia ma, soprattutto, dell’organizzazione sociale, ed è atto che trasforma il paesaggio: mettere una pietra sul suolo significa passare da una condizione di natura ad una condizione artificiale.
Il segno architettonico, indipendentemente dalla funzione a cui risponde, è, in definitiva, atto di cultura! E questo atto, continua Botta, non è neutro “l’architettura è per la città o contro la città;
si costruisce per la città se si consolidano i valori collettivi e la dimensione collettiva e il fatto architettonico diventa tassello per la realizzazione di un territorio più ampio; si costruisce contro se ogni elemento ha una sua autonomia ed è slegato dal contesto”. L’organismo architettonico
così inserito nel territorio, diventa parte della memoria collettiva: ciò che lega con un filo
rosso l’architettura attraverso il tempo e lo spazio, è la sua carica simbolica, cioè il segno
che parla e viene riconosciuto e letto come icona; ad esempio un museo non è solo una somma di spazi vuoti pronti ad accogliere opere d’arte, ma diventa parte integrante dell’immagine di una città e della sua storia ed entra così inconsapevolmente nella storia di tutti i suoi cittadini.
La relazione, percorrendo e indagando il contesto territoriale/paesaggistico, è approdata su un suolo più labile e soggetttivo: la filosofia. Il salto è stato semplice ma non immediato.
L’architettura è per l’Uomo: non solo per colui che ne usufruisce direttamente, ma anche per
chi riconoscendola, ricorda! L’uomo vive di emozioni, ha bisogno di affermare la propria identità e tutto ciò è strettamente legato con il “ricordo” e con l’appartenenza ad un territorio piuttosto che ad un altro e alla sua “memoria”. “L’uomo è uno storico dipendente: esisto perché mi ricordo! Se non avessi la memoria non esisterei”.
Immagine, simmetria, segno collettivo: l’architettura ha un valore iconico imprescindibile. Primo compito per noi è non dimenticare il bisogno ancestrale dell’uomo di possedere una memoria. Siamo chiamati a ragionare sugli aspetti funzionali e tecnologici del fare architettura ma anche “a porsi domande sulla riconoscibilità, sul significato e sulla memoria di uno spazio: queste le vere scommesse sulle quali siamo chiamati ad agire!” perché se riconosci ti orienti e questo ti rassicura, e se sei sicuro vivi meglio; non a caso si preferisce la qualità degli spazi e della vivibilità dei centri storici piuttosto che delle periferie, “le città dei morti piuttosto che le città nuove”. La qualità di un fatto architettonico dipende quindi da altri fattori oltre le funzioni e le tecnologie utilizzate: “l’architettura è come un dono offerto e la sua qualità non è nell’impianto o nel volume
ma nelle relazioni spaziali che si stabiliscono fra questo volume e l’intorno e nella sua capacità di suscitare un’emozione”. Oggi siamo scontenti della nostra architettura e anche se la qualità di un intervento non è valutabile in termini tecnici, possiamo affermare che le nostre città non soddisfano più i nostri veri bisogni: comunicare, emozionarci, relazionarci. “Con l’architettura non possiamo cambiare il mondo ma possiamo cambiare l’architettura, cioè possiamo dare il nostro contributo e far sì che ci sia un po’ più di gioia di vivere attraverso la qualità degli spazi”. Sono gli spazi collettivi quelli che l’architetto Botta, ha sottolineato più volte, mancano nelle città di oggi. Che lo spazio, il vuoto sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo anche naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi e da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la scena ove la nostra vita si svolge. (Bruno Zevi: Saper vedere l’architettura).
La mancanza di qualità nelle nostre periferie urbane e nel nostro fare architettura, forse è dipesa dall’ansia di aver voluto cercare risposte a domande imposte dal mercato, dal numero crescente
di abitanti e dall’economia più che dal nostro modo di vivere. Sono i bisogni primordiali dell’uomo che sono passati in secondo piano lasciando emergere solo quelli legati alla tecnologia. Dovremmo invertire la tendenza e creare più luoghi di incontro che luoghi “funzionali” e provare a “sollevare
domande più che trovare risposte!”. Non a caso l’architetto Botta, raccontando della sua scuola,
sottolinea il ruolo fondamentale che giocano le discipline umanistiche nella formazione di un
professionista e della sua capacità di allenare il pensiero e il ragionamento. La conclusione
potrebbe spontaneamente sfociare in una semplice uguaglianza: qualità dell’architettura = qualità del pensare l’architettura! Non posso non aggiungere (senza esimermi da un “mea culpa”) che la traduzione di un pensiero sull’Architettura, per quanto “alto” possa essere, non sempre corrisponde all’Architettura…e mi viene in mente che, forse, aveva ragione Louis I. Khan: L’Architettura non esiste. Esiste solo l’opera di un architetto.

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