Pensare Sostenibile

A.A.A. PPC CERCASI IDEE PER MATITE URBANE
MANUALE D(')ISTRUZIONE DELLA SOSTENIBILITA' CIVILE
di Luigi Oliva

“Dans quelques heures l’ensemble des images qu’a produit
l’humanité aura passé en nombre celui des créatures vivantes[.]
la rupture de l’équilibre entre le paraître et la vie.”
(Yves Bonnefoy, Rue Traversière et autres récits en rêve,
Mercure de France, Paris 1987)

Mentre scrivo, nell’ovattata, vibrante, alienazione di un vagone, attraverso un tratto di quell’infinita città-lineare-stagionale che è la costa adriatica, nell’attimo in cui l’estate alle porte
scalda i colori delle relazioni nella decentralità salata all’italiana.
Accompagnato dalle visioni di Bonnefoy, penso all’architettura, che delle immagini ha fatto il suo alimento iperreale, da quando il “maestro” ha lasciato la bolla per prendere la matita e poi il mouse.
Bastano gli architetti per cambiare e governare la città? Evidentemente, no.
Nell’habitat del professionista del XXI secolo, riviste illibate nel loro imene di cellophane ricoprono pavimenti mordentati. Dietro, file polverose di strisce-titolo/autore costituiscono
il necessario background bibliografico, utile per un cordiale lunch tra colleghi. Alberti e Vitruvio
sono i fossili della conoscenza che contendono la retorica delle forme ai “giovani” Giedion,
Christaller, Sitte. Nell’attesa che nasca e muoia persino quel simpatico nonnino di Venturi,
perché non rilassarsi nel classico landscape radieuse, con le torri colorate e i collages di
signorine sunglass che portano a spasso cani bianchi, pelosi, pettinati?
Prigioniere dell’immagine, le archistar «vengono convocate come eroi culturali nei talk-show
che contano. Ma sono in realtà esecutori in bello stile di un’arte regimentale, senza più
nessuna consapevolezza della loro funzione sociale». Le riflessioni di Cristiano de Majo,
che ha attraversato la periferia napoletana per Diario (n.7, maggio 2009, p.17), mi riportano alla
mente l’agrimensore K (F. Kafka, Il castello) per il quale l’agire «si manifesta così perfettamente
prigioniero dell’ordine dei fatti da rendere inconcepibile il timbro stesso della decisione».
Eppure la città è lì, che scorre sempre nuova, come il fiume di quel greco, spinta dall’energia
degli Uomini e della Terra. L’assenza degli Architetti ha aperto la città ad altre figure in grado
di esplorarla: i sociologi, gli psicologi, i climatologi, gli alimentaristi, i criminologi, i giornalisti, i poeti, gli economisti, … persino i preti, attraverso parole e immagini, descrivono le contraddizioni della contemporaneità costruita. Aprono strade come urbanisti all’interno di ignoti territori della convivenza. Pianificano paesaggi artificiali, anticipandoli con precisione infinitamente maggiore delle sterili macchie di colore su un plottaggio a bandiera.
Se l’analisi, la sintesi e persino il progetto del futuro di una città come Taranto si colgono realisticamente soltanto nei libri d’inchiesta, nei disegni dei bambini o nei film ambientati tra gli spazi del quotidiano, allora gli architetti devono colmare la loro carenza etica e culturale per
aprirsi all’approccio multidisciplinare. Necessità di senso, ma anche di dignità, di un ruolo che è quotidianamente negato dall’immagine della periferia contemporanea.
Decenni di non luoghi (Augè) non hanno scalfito la sete di astronavi da rivista, fino al battesimo dei superluoghi: i «grandi impianti architettonici in cui infrastrutture e funzioni si sommano dando vita ad ambienti standardizzati, pensati per il consumo da parte di folle che lì
si incontrano senza necessariamente entrare in relazione» (La civiltà dei superluoghi, a c. Agnoletto, Delpiano, Guerzoni, Bologna, Damiani 2007). La spersonalizzazione dell’uomo nella città-meccanismo disegnata, avulsa dal senso di identità, ha prodotto moltitudini di non
persone che sfuggono ad ogni logica di integrazione e pianificazione (A. Dal Lago, Non persone, Feltrinelli 2004). Il formalismo marziano dell’architetto di provincia, stretto tra logiche costruttive decrepite e finiture da ultimo grido, è immune alle teorie del determinismo urbano
(J. Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, 1961; O. Newman, Architectural Design for Crime Prevention, New York 1971). Salvo, poi, lamentarsi del degrado sociale e della lesa maestà di “creatore” quando i bisogni vivi delle persone e dei gruppi si esprimono attraverso l’azione individuale autoreferenziale o la rifunzionalizzazione abusiva ma condivisa di strutture architettoniche ed urbanistiche inadeguate. Gli architetti si sentono estranei alle vicende delle banlieu francesi, dei campi rom, o alle rivolte dei ghetti di Malmö. Lì, invece, emerge il conflitto sociale prodotto dalla segregazione urbana. La città dei
satelliti e delle unità funzionali, diventa la città insostenibile della divisione, della stigmatizzazione delle condizioni sociali, dei muri. E gli architetti, da sempre, sono molto bravi a disegnare muri…
Ma quali sono gli scenari della città sostenibile? Ad aprile 2009, a Roma si è svolta Ecopolis, una manifestazione «dedicata al tema della vita nell’ambiente urbano [per i] responsabili
della qualità della vita delle persone nelle grandi città, in grado di presentare esperienze, tecnologie e progetti per costruire contesti urbani realmente sostenibili» (http://www.ecopolis.fieraroma.it/). Tra le conferenze tenute sullo sfondo di postazioni di operatori delle tecnologie ad impatto zero e speculatori dell’ecologia di facciata,
è stata presentata una ricerca svolta dall’Urban Design Lab, Earth Institute della Columbia University dal titolo: Urban Climate Change Crossroads (a cura di R. Plunz e M. P. Sutto). Gli incroci di cui si riferisce nel titolo sono sia quelli tra modelli urbani e impatto sul clima, sia quelli metodologici tra settori disciplinari che devono necessariamente trovare forme di dialogo per operare efficacemente.
Tra le righe degli interventi di diversi specialisti, l’architettura è “gentilmente” invitata ad abbandonare − come fece a suo tempo la pittura di Dalì − la cornice delle squadrature inkjet con la mascherina, per incontrare in maniera propositiva la realtà implementando l’analisi, la partecipazione, l’ambiente e la tecnologia. L’importanza ambientale dell’edilizia si coglie considerando che oggi le città assorbono energie responsabili del 78% dei gas serra e che
nel 2050 il 75% della popolazione mondiale risiederà nelle città. Non è esagerato affermare, dunque, che l’industria delle costruzioni è, in assoluto, la più dispendiosa e distruttiva delle attività umane (R. Plunz, p.9).
Le città sono, quindi, protagoniste nei processi globali per la sostenibilità e la loro azione comporta la “mitigazione”, delle cause del dissesto con variazioni nel sistema strutturale, economico e sociale; oppure l’”adattamento” progettuale agli effetti del surriscaldamento e
della desertificazione. L’approccio internazionale più diffuso mescola entrambe le azioni attraverso processi concertativi che coinvolgono i portatori di interesse, i pianificatori e il settore privato (C. Rosenzweig, p. 40). Prendendo a riferimento Taranto, invece, l’atteggiamento
prevalente sembra essere l’inerzia, per la quale tutte le esternalità dell’impatto ambientale ricadono sulla cittadinanza.
Secondo il concetto di Giustizia ambientale introdotto già a partire dal 1980 negli Stati Uniti (J. Sze, p.11), esiste una grave disparità nella gestione dello spazio e delle risorse sia a livello mondiale, attraverso stili di vita e consumi; sia a livello urbano, con la gerarchizzazione ambientale, architettonica, infrastrutturale degli spazi della città, che portano a vistose sproporzioni tra classi sociali. Taranto, con i suoi quartieri popolari degradati e schiacciati contro l’industria pesante, con l’isolamento spaziale e la carenza dei servizi, rappresenta un
esempio in grado di tradurre persino in termini di aspettativa di vita, oltre che di benessere, gli effetti pianificatori di logiche elitiste. Un’attualità tristemente anacronistica, in una fase in cui, altrove, le città vengono valutate non più in base al Prodotto interno lordo (PIL) ma al Benessere interno lordo (BIL). Quest’ultimo fattore è in grado di interpretare meglio le tendenze del
popolamento urbano e sostanzia i fenomeni di emigrazione e immigrazione su scala più vasta.
La percezione del benessere interessa anche la competizione tra le città in termini energetici,
territoriali, economici, occupazionali ed i processi di aggregazione metropolitana da
governare in modo sostenibile (M. Caroli, p. 58).
Il termine governance è ormai uno slogan del tecnicismo politichese, ma se lo intendiamo e
sviluppiamo nella sua valenza urbana di «pratiche di organizzazione dell’azione collettiva» (H.
Bulkeley, p.30) diventa il motore della capacità di discussione e di gestione costruttiva dei conflitti, attraverso il dialogo e il consenso partecipato (M. Sclavi, p. 103). Tra i tanti modelli collaudati i più noti sono quelli di Agenda 21, mentre le aree vaste, pur essendo strategiche, stentano dalle nostre parti ad abbandonare la logica lideristica e dirigistica.
Il tema governance e sostenibilità riporta alla mente la 10. Mostra Internazionale di Architettura
di Venezia. Nel corso della kermesse, vennero esplorate in maniera spettacolare le megalopoli
mondiali, poste ad un bivio esistenziale di gestione o esplosione.
La città fu riconosciuta come forma insediativa vincente in grado di creare e sviluppare reti
di polarità infinitamente più funzionali e produttive di quelle tra stati. «Il paradosso urbano per definizione,[…], è un’equazione profondamente spaziale dall’enorme potenziale democratico» per cui «la forma che attribuiamo alla società influenza la vita quotidiana di chi vive e lavora nelle città» (R. Burdett, M. Kanai, La costruzione della città in un’era di trasformazione urbana globale, in Città. Architettura e società, Marsilio,Venezia 2006, vol.1, p.3). La città nasce autonoma e, se supportata da un solido sistema di governance e da una cultura identitaria forte, manifesta questa tendenza nella storica contrapposizione con il potere centrale (D. Bidussa, Diario, cit., p.60).
Saskia Sassen è una delle più note sociologhe ed economiste mondiali, che ha indagato il ruolo delle città su scala internazionale mettendolo in relazione con il dinamismo del tessuto sociale e
spaziale. I risultati della sua ricerca sono sorprendenti: il motore della diversità e della densità che alimenta le città costituisce il sostrato dinamico che permette di reagire velocemente e in
modo sostenibile ai processi di cambiamento globale. «Le città di oggi costituiscono il terreno su cui persone di tutto il mondo si incrociano con modalità non possibili in alcun altro luogo».
Nella città sana e sostenibile, «nella misura in cui potenti attori globali avanzano crescenti richieste di spazio urbano rimuovendo, perciò, da esso fruitori meno potenti, lo spazio urbano si politicizza nell’atto di ricostruire sé stesso». In questa complessità positiva, «l’informalità sta imponendosi come nuovo tipo di economia collegato ad aspetti fondamentali del capitalismo avanzato». Ciò consente a professionisti e creativi di «lavorare negli interstizi degli spazi urbani e organizzativi, sfuggendo alla corporativizzazione» (Perché le città sono importanti, in Città…, cit., p.43) Le città libere governano attivamente l’economia e, sono in grado di agire all’interno dei propri territori con la pianificazione ma soprattutto in modo informale, attraverso «una rivalutazione dei terrains vagues e degli spazi più modesti, dove le abitudini della gente possono contribuire alla creazione dello spazio pubblico». Questa riqualificazione spontanea si avvicina al “restauro ecologico urbano” introdotto da Plunz che indica nel territorio consumato e degradato all’interno delle città la risorsa economica su cui impostare una strategia di accumulazione naturale e risparmio ecologico (Urban Climate …, cit. p.6).
La frontiera dell’informalità, governata con l’azione condivisa, rappresenta una sfida rilevante della sostenibilità urbana in chiave macro e micro-economica. Assumendo che “la città è partecipazione” e ripensando la città-macchina come cittadinanza, reale corrispondenza di forma e contenuto, si dischiudono prospettive creative che superano i concetti tradizionali di abitazione e urbanità: l’ancien régime degli architetti.
Da alcuni anni, Architetti Senza Frontiere conduce un’indagine sull’abitare informale e sui meccanismi della lettura e appropriazione dello spazio da parte di gruppi marginalizzati. Si promuove la progettualità partecipata per affrontare il disagio abitativo, le
soluzioni per i richiedenti asilo, l’autocostruzione con soggetti deboli (http://www.asfitalia.org/). Su basi simili, gli Ecomusei Urbani Metropolitani, fondono innovazione delle politiche di conservazione e valorizzazione partecipativa del patrimonio culturale. L’Ecomuseo
Urbano di Torino (Eut, 2004), sta elaborando la Carta per il Patrimonio culturale urbano sviluppando la capacità di stabilire in primis quale patrimonio davvero appartenga ad una comunità consapevole. Nella mappa partecipata di Niguarda (www.tramemetropolitane.it), con
l’ausilio del Politecnico di Milano si sta sperimentando un Gis (http:// quidtum.wordpress.com/) per stratificare dati creando un’interazione tra l’elemento tecnico e quello partecipativo. Per il proprio Piano di governo del territorio, il Comune di Canzo ha adottato l’“epartecipation”:
i cittadini segnalano i loro punti di vista sul territorio in un blog georeferenziato (S. Dell’Orso, Un ecomuseo urbano, http:// www.arcipelagomilano.org/?p=2722). In Salento, la rete ecomuseale
si concentra sul rapporto cultura popolare/promozione (http://www.ecomuseipuglia.net/).
Siamo agli albori della «coproduzione della città con interventi non frammentari sull’insieme urbano. Qui si apre la strada più ricca e suggestiva dell’architettura di partecipazione, quella che riguarda il recupero e l’indicazione della ricomposizione della città dal punto di vista degli abitanti in quanto società civile, in aperto dialogo con le autorità cittadine e con i responsabili dei progetti stimolati dall’iniziativa privata capitalista […]. Ci troviamo dunque nell’agone della lotta per la città […] che speriamo sia più umana, più libera e più democratica» (C. Gonzàlez Lobo, in Architettura, partecipazione sociale e tecnologie appropriate, Jaca Book, Milano 1996, p.113).
La realtà urbana tarantina è ancora molto distante da questi modelli sostenibili e partecipativi. Tra le poche iniziative per la promozione della creatività e dell’informalità spicca l’azione delle Politiche Giovanili della Regione Puglia (Bollenti Spiriti, Principi Attivi, ecc), in cui anche molti giovani architetti cercano di ridare senso sociale e culturale all’architettura attraverso l’innovazione e l’azione partecipata sul campo.
Senza vitalità e consenso, in un sistema prevalentemente oligarchico e chiuso, la città è condannata al consumo delle proprie risorse e ad una lenta necrosi implosiva, dove gli architetti, perso il proprio ruolo, saranno sempre più simili ai mille vigili di Eliot «che dirigono il traffico
e non sanno dirvi perché venite né dove andate» (T.S. Eliot, La roccia, Bibl. via Senato, Milano 2004, p.77).

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