Gli spazi urbani



GLI SPAZI PUBBLICI
PER CHI SONO GLI SPAZI PUBBLICI?
Breve ragionamento critico sui territori della città di ieri e di oggi

di Filippo Piccinno

La civiltà giudica i propri valori più alti esprimendosi negli edifici e negli spazi pubblici. Tangibili e meravigliosi esempi storici sono ancora oggi esplicito esempio della rappresentazione in forma architettonica dei valori sociali e dei suoi molti sistemi politici. Le sbalorditive dimensioni del duomo di Milano sono paragonabili alle “cattedrali” dello skyline di Manhattan, piuttosto che allo
spazio cerimoniale tra il Louvre e l’arco di Trionfo a Parigi, e così via passando attraverso le celebrative architetture dell’EUR che convivono con gli edifici e gli spazi Moderni dello stesso quartiere. Facendo un breve riepilogo storico, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è verificata una perdita generale di attenzione nei confronti del “significato” di spazio pubblico. Cosicché, a causa dello sviluppo dominato dalla sete insaziabile di palazzi per appartamenti o
per uffici tutti uguali degli anni del boom economico, l’architettura ha involontariamente veicolato l’immagine di una società di massa priva di identità. Tuttavia, in anni più recenti, i danni causati dal traffico e dall’inquinamento alla vivibilità urbana delle nostre città sono stati sempre più riconosciuti e la nuova attenzione alla salvaguardia dei centri cittadini ha anche favorito recenti interessi verso alcune aree di incontro pubblico, volutamente punto di congruenza tra coloro
che costruiscono i palazzi e la pressione (ambigua) degli urbanisti.
Agli inizi degli anni ottanta, l’epocale programma di riqualificazione urbana di Barcellona trasformò quella città nel più formidabile cantiere europeo fondato sulla riprogettazione degli spazi pubblici, e fece scuola nella amministrazioni e nelle facoltà di architettura di mezza
Europa. E in tanti, ancora oggi, sono convinti che tale esperienza sia esportabile in tutto il territorio delle nostre città, specialmente nelle parti più degradate, quelle fuori Piano, quelle informi, quelle abusive. E i tanti amministratori, specie quelli più progressisti, credono che il problema delle città si possa risolvere sottoponendo ogni parte del territorio inurbato a tale trattamento. D’altro canto la richiesta della gente che abita le città non è diversa. Attraverso una
miriade di comitati più o meno spontanei o più o meno ambientalisti, associazioni di quartiere, sindaci (aimè) tornacontisti o falso-buonisti, la gente chiede Piazze, il Verde, il Portico, il pavimento in Pietra, il lampione di fine Ottocento ed altro. Eppure ogni nuova piazza inaugurata, sembra produrre un senso di frustrazione, spaesamento ed indecisione di giudizio nella gente che poi in quella piazza non ci va nemmeno la domenica perché, ovviamente, preferisce andare
nei centri commerciali sempre aperti o nello spazio gioco di un autolavaggio self service. Ma non nelle piazze. Intanto quegli stessi spazi appena ultimati sono preda dell’incuria, dell’impossibilità di mantenerli e del rapido degrado. Eppure gli architetti si chiedono perché. In fondo non è che nei loro progetti ci sia qualcosa di sbagliato: chi preferisce i mattoni di pietra o quelli color mirtillo, chi preferisce un lampioncino a lanterna, piuttosto che in acciaio inox, chi la collocazione di una nuova ma anche “antica” struttura liberty: per carità, tutto va bene (a proposito, dove eravamo quando, per primi, dalla pagine di questa Rivista, in pieno dibello-style, si faceva
notare che non fosse proprio “onesta intellettualmente” la struttura di Piazza Garibaldi? N° 15/2003. ndr ). Diciamo la verità, noi architetti non riusciamo più a costruire nessuna identità convincente dello spazio urbano. Il problema dunque non è formale ma concettuale.
Il meccanismo che attraverso le piazze, i sagrati, i portici, i tridenti, le pietre, in una parola l’”identità” ha legato in duemila anni l’agire politico delle persone agli spazi fisici della città non è più utilizzabile.
Lo spazio non è più capace di diventare luogo, mettiamoci l’anima in pace una volta per tutte. Di fatto la “nuova attenzione” per lo spazio urbano maschera sempre un interesse diverso e, come
detto prima, l’abolizione del traffico veicolare nelle strade centrali è barattato con l’incremento dello sviluppo commerciale o con la possibilità di estendere la superficie all’aperto di un caffè, o di un luogo in cui sedersi. Resta tuttavia il fatto che questi luoghi non sono sempre completamente “pubblici”; la loro ubicazione, le attività che vi si svolgono, e la “discreta” sorveglianza che li circonda vengono considerati da alcuni come luoghi sicuri e da altri come respingenti.
Nelle attività commerciali vi è più possibilità di interazione sociale, sempre però sotto gli attenti e vigili occhi del personale impiegato. Per le nuove strade lastricate di pietra bianca, attori e musicisti vengono sempre più spesso invitati ad esibirsi perché i passanti si sentano a
proprio agio (ma si usano, a Natale e a Pasqua, anche gli altoparlanti appesi ai balconi con le musiche di Nat King Cole o di Renato Zero…). Tutte iniziative per rendere più forzatamente urbana l’atmosfera di un luogo pubblico. Che però non è più un luogo. La riqualificazione
dello spazio pubblico non è un problema di arredo urbano anche se non vorrei che qualcuno mi fraintendesse pensando ai mattoni, color yogurt al mirtillo, della nostra città. Già, perché quelli sempre si continuano a mettere (allora il dibello-style non è ancora finito?)! Non credo, pertanto, che convenga percorre la strada della protesta, almeno da parte di noi architetti, se non proviamo a dare una risposta costruttiva e, soprattutto, una risposta alternativa convincente.
Tanto per cominciare, allora, questi spazi pubblici per quale pubblico sono? Ormai sull’orlo di una crisi di nervi per la continua incomprensione con l’albertiano progetto umanistico di città e
ripensando alle piazze di Barcellona con belle forme e artificiose naturalità, proviamo comunque a riconsiderare l’architettura ereditata per gli spazi pubblici ancora riconoscibili nei nostri centri
cittadini. Per quello che mi riguarda, come tarantino, nella nostra città posso facilmente notare le quinte spaziali progettate, anche se in parte mai realizzate, intorno alla Piazza Ebalia, così come
l’inquietante e discutibile scenografia del Palazzo di Brasini che si affaccia sulla Rotonda; poi anche la Piazza di Piccinato alla Bestat, memoria democristiana di uno spazio pubblico mai usato, così come la piazza della Concattedrale con le tanto amate e odiate vasche oggetto quotidiano di un accanito rimaneggiamento che credo non abbia precedenti nella storia di uno spazio pubblico. Tutti luoghi oggi comunque ameni ma che, allo stesso tempo, ritengo debbano essere ancora “salvati” intellettualmente al cospetto delle oscenità dei giorni nostri, ancora in costruzione, tra i nuovi quartieri di Lama, San Vito e Tramontone. Ancora auspico sull’argomento un cospicuo apporto sulle pagine di questa rivista da parte dei colleghi della Provincia, con tanti centri urbani fatti di spazi pubblici riconoscibili e non. L’unica differenza che c’è tra gli spazi urbani di ieri e di oggi è proprio che in quelli di ieri è ancora riconoscibile una “qualità” progettuale almeno
teorica, orgogliosamente e retoricamente fatta da un architetto, ma comunque onesta anche se enfatica per alcuni, troppo disegnata, se volete, ma comunque individuabile nell’identità di quel periodo politico e sociale. Per il resto è sempre un “non luogo”.
Come fare dunque per progettare ancora? Si, perché ancora spazi ce ne sono da progettare. Pensiamo a quante aree si creano automaticamente quando si realizza una infrastruttura, un
sovrappasso veicolare, un nuovo svincolo stradale urbano (occhio alle rotatorie che finalmente arrivano anche da noi..), tutti spazi che vengono considerati non per architetti, ma piuttosto per i tavoli dell’ufficio Lavori Pubblici, che pure ne ha competenza ma non ne ha le capacità. Il nostro territorio, in particolare, non è stato in grado di sollecitare il rispetto da parte dei suoi operatori pubblici perché non li ha mai educati al progetto degli spazi. Da questo punto di vista molti
allontanano l’ipotesi dell’interevento di qualche Archistar per ridare qualità ai nostri pezzi di città. Ma forse proprio qualche intervento “dotto” potrebbe innescare almeno un dibattito interno tra noi architetti locali, o comunque apportare luce nuova negli occhi di chi
ci amministra. Non sicuramente un toccasana, lo riconosco, ma solo una specie di sasso nello stagno. E tali meccanismi possono partire solo da un grande interesse attivabile tramite procedure concorsuali di idee, con forte spinta pubblicitaria e controllate da una specifica
azione che il nostro Ordine dovrebbe promuovere. Penso alla possibile dismissione di aree demaniali e quant’altro che potrebbe coglierci, per l’ennesima volta, impreparati.
Quindi, intellettualmente parlando, il nuovo progetto urbano dovrebbe investire nel rappresentare l’identità di ogni soggetto avente diritto di veto, nel rappresentare le più disparate categorie sociali, nell’ascoltare ogni voce, pensiero ed opinione. Dovrebbe essere
economico, funzionale, opulento e simbolico. Essere riconoscibile, ma anche non corporativo, commerciale ma anche non controllato, altamente tecnologico ma anche “attento” urbanisticamente, bioclimatico e funzionale, minimale e rigoroso, straordinario ma normale. E soprattutto dovrebbe essere il contrario di un luogo.
Possibile tutto questo?
Forse però gli architetti dovrebbero pretendere, e mostrarsi capaci, di governare gli spazi pubblici con regole disciplinari pagando il prezzo dell’aggiornamento delle regole stesse e senza legarsi ancora all’urbanistica dei numeri, continuamente riproposta sotto velate spoglie.
Ma allora perché a Barcellona “la piazza” ha funzionato? Perché, anche se non lo vogliamo digerire, le piazze di Barcellona sono dentro il suo vecchio centro storico, trasformato in shopping mall all’aperto e privo dei suoi abitanti. Ecco perché la gente ci va anche di domenica. Anche se la maggior parte degli architetti, me compreso, non ci credono.

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