ArchitettiTaranto n. 2/2009


E' uscito il n. 2
di ARCHITETTITARANTO
quadrimestrale dell'Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Taranto
Buona lettura!

Editoriale


EDITORIALE

PENSARE/FARE QUALITA'
BINOMIO POSSIBILE IN ARCHITETTURA?



Bruno Zevi scrisse: “L’architettura è il termometro e la cartina al tornasole della giustizia e delle libertà radicate in consorzio sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato e progetta scenari organici.”
Una così efficace ed appassionata definizione dell’architettura rende possibile ad ogni semplice cittadino la comprensione che un contesto urbano “brutto” è figlio del suo tempo e del contesto umano in cui è sorto e si è consolidato.
Non è altrettanto detto però che eliminando il brutto intorno a noi la società possa diventare improvvisamente e conseguentemente più giusta, libera e democratica.
Gli architetti, soggetti deputati a proporre con forza elementi di miglioramento degli spazi urbani, hanno oggi la tensione etica e la forza culturale tale per porre come obiettivo del proprio operato la ricerca del “bello”, del meglio, in un solo termine, della qualità? Dopo aver focalizzato nel suo numero uno le problematiche a scala territoriale e le risorse di cui dispone la provincia di Taranto, i suoi nodi critici e le sue aspettative di crescita e sviluppo, non è casuale allora che
ARCHITETTITARANTO abbia immaginato di dedicare il suo secondo numero al tema della “qualità nel pensare/(fare) Architettura”.
Così, proponendo di fatto un numero doppio (il primo, AT2, più proiettato alla “scala urbana”, ai “vuoti”, mentre il secondo, AT3, tratterà dei “contenitori/edifici”, i “pieni”). ARCHITETTITARANTO si pone l’obiettivo di concludere un percorso conoscitivo e analitico e di focalizzazione per successivi approfondimenti di scala, attraverso la lettura di alcuni dei “materiali” d’elezione dell’essere Architetto, il territorio, la città e l’abitare.
La città appare un luogo dove la qualità è ancora un obiettivo da raggiungere piuttosto che un punto di riferimento certo. Molto più spesso la città del passato porta in sé caratteri di qualità che oggi con più difficoltà si esprimono nei nuovi interventi a scala urbana. Gli spazi pubblici, i vuoti urbani non sono riempiti di contenuto e sono sempre più volte ridotti a luoghi non luoghi, espropriati del loro ruolo aggregativo mentre la città continua a crescere su se stessa, apparentemente senza un disegno organico e strutturale.
La questione allora che da architetti ci si pone è quindi se si possa parlare o meno ancora di “progettazione urbana”, se possa reclamarsi coerentemente una dimensione “sociale” degli spazi urbani, se possa essere immaginabile recuperarne il significato attraverso una reale progettazione di qualità. Ma la domanda più difficile a cui rispondere è quale possa essere il ruolo dei “professionisti dell’edilizia” e quali le responsabilità, etiche, professionali e morali, della società, della politica, delle amministrazioni, dei progettisti, dei costruttori, ma soprattutto quali le svolte possibili per invertire una tendenza che appare incontrovertibile.
Non è un caso si sia scelto di iniziare la nostra disamina sui temi della qualità proprio dall’Aquila.
Il terremoto abruzzese, il disastro naturale del sisma unito alla scelleratezza umana di progettisti
e costruttori dissennati, ha fornito lo spunto per una valutazione attenta e senza sconti del ruolo del progettista e delle sue gravi responsabilità soprattutto in occasione di eventi di questa natura.
In questo contesto abbiamo scelto di raccontare l’esperienza del soccorso alla popolazione aquilana e di affidare il racconto alla nostra Tonia Marsella che con il suo diario di viaggio ha saputo tracciare un resoconto profondo e appassionato della sua settimana da volontaria sul campo a L’Aquila.
Con la pubblicazione del suo primo numero ARCHITETTITARANTO si è posta da subito come interlocutore per contribuire al dibattito sul ruolo dell’architetto e dell’Architettura nel nostro territorio, sui suoi limiti e sulle sue opportunità, oltre che come luogo di confronto e veicolo di comunicazione del punto di vista degli Architetti, delle ragioni della categoria.
Al fine di incrementare gli strumenti a disposizione dei lettori, il Comitato di redazione ha istituito da qualche mese un blog (http://architettitarantoblog.blogspot.com/) sul quale ogni lettore può partecipare al dibattito in corso e potrà fornire il proprio contributo intervenendo direttamente sui temi già sviluppati nella rivista cartacea o su qualsiasi altro argomento di interesse per la professione.
Dobbiamo però rilevare come, ad oggi, davvero scarsa sia stata da parte dei colleghi l’affluenza al blog e come non sia stato “postato” alcun commento sui temi affrontati. Così come poca attenzione sia stata riservata all’invito rivolto a tutti i colleghi per l’invio di interventi e contributi scritti per la rivista.
Ciò nonostante, è comunque volontà del Comitato di redazione di potenziare il blog, inteso come strumento veloce ed immediato di interazione e confronto tra i colleghi, estendendo nuovamente a tutti l’invito a partecipare alla costruzione della Rivista che nasce e si consolida come l’organo ufficiale dell’Ordine degli Architetti, PPC della Provincia di Taranto.
Buona lettura.

Il C.d.R. di ArchitettiTaranto

Diario di viaggio.

Diario di viaggio

E POI SI RITORNA A CASA...

di Tonia Marsella

E poi si ritorna a casa... e niente è più come prima! Negli occhi e nel cuore, piantati come chiodi, le immagini di questi giorni, non più “guardate” attraverso i vari TG o gli approfondimenti, non più “sfogliate” sulle pagine dei giornali, ma lì davanti a me, ferite aperte, monumenti al dolore, macerie rese sacre da quanti non ci sono più, dalle migliaia di storie sepolte lì sotto, cambiate per sempre.
Ho camminato tra quelle rovine come nella più “sacra” delle Cattedrali... quel peluche appeso a quello scheletro di muro è il Crocifisso, il biliardino l’Altare e quella bambola, spettinata e rotta,
la più dolce delle Madonne... ai piedi di mille croci.
Ora tutto ha un altro sapore! Anche (o soprattutto) i gesti più semplici, quelli di tutti i giorni, che si fanno automaticamente, senza pensarci su: aprire il frigo per prendere qualcosa di fresco; chiudersi in camera per stare un po’ con se stessi, leggere un libro, ascoltare un cd;
scegliere qualcosa di carino e comodo da mettersi; telefonare ad un amico... In una tenda tutto questo non è possibile!... e non è un campeggio con gli amici dove ogni disagio ha il gusto dell’avventura e della novità... e poi si ritorna a casa e tutto è come prima!
Ho avuto il grande privilegio di ascoltare questa gente e di conoscere qualcuno dei tanti “angeli” che si prendono cura di lei (tante cose non vanno e non sono come vogliono farci credere,
ma non voglio parlarne oggi; chiedo solo di non accettare mai passivamente tutto ciò che ci viene detto ma di verificare sempre).
Questa gente mi ha aperto il suo cuore, mi ha raccontato il terrore di quei momenti, la paura del “dopo”, la loro vita sbriciolata insieme alle loro case che avrebbero dovuto proteggerla, in quegli
interminabili 30 secondi.
“Grazie per tutto quello che fate per noi”... e mi sono sentita piccola perchè, in fondo, che ci vuole?! A noi, che abbiamo tutto, non costa nulla organizzare una raccolta, fare un po’ di spesa in più, saltare su una macchina e raggiungere l’Aquila, affrontare il freddo, la pioggia, dormire per terra... la nostra casa, la nostra vita di sempre è lì che ci aspetta. “Per noi è importante sapere che ci siete, che pensate a noi, che vi date da fare, che ci siete vicini”... e avrei voluto abbracciarli tutti!
E poi si ritorna a casa... col cuore pesante. Dentro, a farmi male, mille domande e neanche una risposta... e il viaggio si fa quasi tutto in silenzio perché le parole non bastano a raccontare il dolore e la rabbia per ciò che poteva essere evitato. E in mezzo alla rabbia e al dolore, testarda come sempre, la speranza (molto flebile in verità) che un giorno l’uomo possa finalmente imparare dai propri errori… ma è ancora troppo buio intorno e proprio non riesco a vedere i
delicati colori di un giorno nuovo…

Terremoto de L'Aquila




L'AQUILA: CRONACA DI UNA FINE ANNUNCIATA

di Massimo Prontera

6 aprile 2009. Ore 3.32. La provincia de l’Aquila viene svegliata da un boato senza precedenti. La terra inizia a tremare come mai negli ultimi decenni. In pochi attimi della città storica ed elegante
dell’entroterra abruzzese restano macerie e nuvole di polvere, urla e grida strazianti. Nella notte tra la domenica delle palme ed il lunedì successivo i cittadini di L’Aquila e di altre località della sua provincia perdono tutto, casa, attività lavorative e professionali. Perdono amici, parenti, figli e genitori.
Alla fine, dopo giorni di soccorsi in estrema emergenza, scavando senza tregua tra le macerie, il bilancio del sisma è duro da digerire. I morti sono 298, i feriti più di 1500.
I sismografi registrano una magnitudo 5.8. In realtà non una magnitudo così tanto elevata, ma i danni sono incalcolabili in termini di vite umane e di danni alle cose.
A L’Aquila in pochi minuti crolla tutto, ciò che poteva crollare e ciò che non doveva crollare. Viene ridotta in cenere la Sede della Prefettura, allocata in uno stabile storico nel centro della città, struttura dalla quale secondo i piani di emergenza della Protezione Civile si sarebbe dovuta gestire l’emergenza organizzativa.
Crollano edifici di 30, 40 anni appena, restano in piedi palazzi ultrasecolari. Lesionato in maniera considerevole e reso inagibile da subito il nuovo ospedale civile, aperto da una manciata di mesi appena e ultimato, dopo trent’anni di varianti e stop dei lavori.
Dichiarate inagibili moltissime case private ed altrettante scuole ed uffici pubblici. Ma il simbolo
del dramma diventa da subito la Casa dello Studente, ridotta in macerie dalla prima scossa
e sotto i cui resti muoiono otto giovani studenti, colti nel sonno dal terremoto.
La Protezione Civile gestisce da subito e con efficacia l’emergenza dei primi giorni dopo il
terremoto. Sono i giorni più duri. Le scosse continuano, tutto il giorno e durante la notte.
L’Italia intera si stringe attorno all’Abruzzo con una partecipazione emotiva e concreta come mai negli ultimi anni. I media nazionali ed internazionali, pur con alcune, forse troppe, cadute di stile nel raccontare gli avvenimenti, contribuiscono a fare del terremoto dell’Abruzzo un caso nazionale. Le raccolte di fondi e di generi di prima necessità si susseguono giorno per giorno.
Per L’Aquila partono volontari armati di pazienza, buona volontà e soprattutto passione civile. Per diverse settimane l’Italia ha dato il meglio di sé per collaborare al superamento dell’emergenza.
Ma l’Italia migliore non è riuscita a celare le reali motivazioni di questo disastro che non risiedono solo nel movimento improvviso e imprevedibile della faglia appenninica, ma anche nello stravolgimento del territorio e nel suo uso spregiudicato e dissennato. La magnitudo
registrata con la prima scossa, la più dura, non giustifica infatti i danni arrecati e la quantità e qualità dei crolli verificatisi tra L’Aquila e provincia. Classificata da anni come zona ad alto rischio sismico, la provincia aquilana avrebbe dovuto seguire regole e tecniche specifiche nella realizzazione delle nuove costruzioni come negli adeguamenti delle vecchie strutture edilizie.
Ma solo pochi secondi hanno svelato l’inganno e smascherato i colpevoli. Le normative sismiche sono state spesso disattese o applicate in minima parte. La qualità dei materiali impiegati ha tolto
il velo su un malcostume che tutti conoscevano e a cui tutti o buona parte degli operatori del settore partecipava.
Le buone tecniche edilizie sembrano ad un tratto essere scomparse.
Gli immobili degli anni 60 e 70 del secolo scorso, epoca del boom edilizio italiano, hanno dimostrato la loro inefficienza dal punto di vista strutturale. Gli edifici degli anni successivi poi non hanno mostrato miglioramenti significativi dal punto di vista costruttivo. Scarsa
qualità dei cementi impiegati, armature non a perfetta regola d’arte, ma soprattutto una sottovalutazione assoluta del problema sismico hanno contribuito a creare una situazione divenuta insostenibile al primo terremoto più intenso. La qualità della progettazione e della
buona architettura hanno quindi lasciato campo libero alla ignoranza ed alla pura speculazione.
Sotto accusa le categorie professionali tecniche ed i costruttori edili, incapaci probabilmente di affermare le ragioni della qualità e della sicurezza sulla speculazione.
Gli stessi architetti, ingegneri e geometri saranno chiamati ora a riorganizzare gli spazi urbani colpiti dal terremoto e a ripensare nuove e più adeguate soluzioni per prevenire altri eventi così disastrosi.
Varie le proposte in campo per la ricostruzione de L’Aquila e delle decine di comuni piccoli e meno piccoli coinvolti dal sisma. Dal Governo centrale è giunta fin da subito la proposta della costruzione di nuovi quartieri satellite, denominati subito new town e dello spostamento dei cittadini sfollati.
La soluzione proposta non ha determinato però l’approvazione dei cittadini per i quali la città è una sola e non sono ammesse altre nuove realtà urbane, senza storia e senza memoria.
Abbandonata per ragioni di sicurezza la città della memoria, intanto la cittadinanza è costretta a vivere la quotidianità delle tendopoli, nuove città della precarietà e della provvisorietà in attesa che la cittàdel futuro e dell’immaginazione possa tramutarsi dal sogno di una casa nuova a segno vivo e pulsante di una L’Aquila rinata e tornata a vivere.

Terremoto de L'Aquila


L'AQUILA: LE TRE CITTA'
di Antonello Simeone

L’Aquila oggi, a ben guardare, può pensarsi come tre città, tra loro apparentemente diverse, eppure ognuna essenza e significazione dell’altra, comune traccia e direzione per percorsi, immagini, segni, rappresentazioni, … La prima città è quella della memoria.
La città che ha sostenuto l’urto del terremoto, ha sopportato l’inefficienza umana, ha subito l’inganno della speculazione e ora giace, ferita e ripiegata, protetta solo dalla volta del cielo e dalla tela del ricordo… Forse richiama Armilla o, ancora di più, Zaira, la città che “(…) non
dice il suo passato, ma lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere (…)”1: è la città che si mostra e si racconta, fiera e orgogliosa, finanche attraverso le sue distruzioni e il suo silenzio, è la città che rende evidente la propria debolezza, che non cela la sua tragedia, non modera il suo dolore…
È una città come assente, nel distacco dei suoi abitanti, nel deserto delle vie, delle piazze, del mercato, nel torpore dell’andare e dello stare, nel silenzio agli angoli e agli incroci, nell’immagine del futuro… ove, a volte, non si riconoscono più strade, palazzi, monumenti, spazi urbani…
Eppure rimane, potente, risoluto, immutabile, un “genius urbis”, custodito dalla memoria, protetto nell’identità, nella storia, nel progresso del tempo e delle vicende singolari, in una città non tracciata dagli urbanisti o progettata dagli architetti, ma edificata dagli uomini, dalle loro storie, dal loro quotidiano vivere, dal comune sentire, dai valori condivisi, dal cum‑patire…
La città della memoria racchiude il suo essere e il suo significarsi nei pieni costruiti e nei vuoti urbani, oltre le pure configurazioni fenomeniche, oltre il suo “recinto” fisico (Umfriendung), oltre la conta dei crolli o la valutazione dei danni, nel profondo del suo patrimonio umano e nella ricchezza degli ideali della sua comunità.
Così può “(…) restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostrando in esse bellezze o rarità
particolari. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una nota”2, perpetuandosi oltre la distruzione, oltre il suo disegno fisico, oltre la sua configurazione spaziale e temporale…
La seconda città è quella della provvisorietà.
È questa una città colorata come i suoi panni stesi ad asciugare, sottile come le sue tende allineate, vociante come i suoi bambini nuovamente per le strade, ma è anche la città ove tanto di quello che prima appariva scontato, normale e ordinario ora diventa difficile, faticoso, da conquistare…
E’ la città che vive nelle tendopoli, che gioco forza unisce, che sopporta la promiscuità, che affonda nel fango della pioggia, che soffre ai primi caldi, che rende complesse anche le più semplici e
quotidiane azioni personali, che annulla ogni forma di riservatezza e di riparo…
Ma è anche la città che crea nuova umanità, che avvicina chi prima, pur prossimo, difficilmente si considerava, che dà vita a nuove relazioni, realizza nuove solidarietà, che, anche per necessità, sollecita al reciproco sostegno, rianima i rapporti interpersonali, rinsalda i legami e i valori sociali, edifica una comunità nuova…
È questa una città “a tempo”, “fuori dal tempo”, “vittima del tempo”, transitoria e precaria:
sottile nei suoi segni visibili, profonda nella sua sofferenza, una città che, alla sottigliezza
delle sue protezioni fisiche, contrappone lo spessore dei rapporti umani, richiamando,
costantemente, la memoria del passato, pensando ad una idea del futuro, condivisa e radicata, non in un “dovunque” teorico e indefinito, ma lì dove è la propria storia, la propria comunità, il proprio Essere…È una città “ponte” che, per questo, raccoglie e raduna, conserva le sue
storie, tramanda i suoi valori, racconta ogni suo angolo, ogni sua piazza, ogni sua strada, rianimando la memoria…
La terza città è quella dell’immagin(azione). È la più impercettibile e la più impalpabile delle tre, perché è quella che risiede nella mente e nel cuore degli uomini, nel loro desiderio di futuro, nella personale idea di città…
È un po’ “Fedora”, “città azzurra che si rinnova per ognuna delle sfere di vetro, in ognuna delle stanze del palazzo di metallo”, che si costruisce e si trasforma incessantemente nel progressivo
immaginare e costruirsi delle idee.
È la città che a tutti (indipendentemente dal ruolo, dalle esperienze, dalla professionalità, dalle competenze) piace frequentare e nella quale ci si compiace di riservarsi il proprio ruolo di “creatore”, “progettista”, “inventore”, ignorando le città della memoria e della provvisorietà, fantasticando di infiniti piani perfetti, tracciando teorie di strade, piazze, palazzi, botteghe, monumenti, ma senza suoni, senza luci, senza voci, senza segni, senza uomo, senza vita….
Il rischio, allora, è quello della “plastic town”, della città‑immagine, il rischio è che l’urbanistica, e l’idea originaria della città, divengano, per l’ennesima volta, puro strumento di propaganda (come la Berlino di Speer o la Parigi di Mitterand), pianificando senza storia, senza memoria, senza uomo, alla ricerca spasmodica e frenetica di una città perfetta solo in quanto ordinata, asettica, accurata, ma priva di anima, dinamismo, suono, vita, ove l’uomo non è misura della progettazione, ma, esclusivamente facitore di investimenti immobiliari o, peggio, oggetto da collocare “correttamente” in apposite case‑caselle (come a Créteil o a Gibellina nuova),
ove la storia e la memoria sono un ingombrante fardello del quale velocemente liberarsi, sacrificate sull’altare dell’algida immagin(azione) e della città‑senza‑città.

Gli spazi urbani



GLI SPAZI PUBBLICI
PER CHI SONO GLI SPAZI PUBBLICI?
Breve ragionamento critico sui territori della città di ieri e di oggi

di Filippo Piccinno

La civiltà giudica i propri valori più alti esprimendosi negli edifici e negli spazi pubblici. Tangibili e meravigliosi esempi storici sono ancora oggi esplicito esempio della rappresentazione in forma architettonica dei valori sociali e dei suoi molti sistemi politici. Le sbalorditive dimensioni del duomo di Milano sono paragonabili alle “cattedrali” dello skyline di Manhattan, piuttosto che allo
spazio cerimoniale tra il Louvre e l’arco di Trionfo a Parigi, e così via passando attraverso le celebrative architetture dell’EUR che convivono con gli edifici e gli spazi Moderni dello stesso quartiere. Facendo un breve riepilogo storico, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è verificata una perdita generale di attenzione nei confronti del “significato” di spazio pubblico. Cosicché, a causa dello sviluppo dominato dalla sete insaziabile di palazzi per appartamenti o
per uffici tutti uguali degli anni del boom economico, l’architettura ha involontariamente veicolato l’immagine di una società di massa priva di identità. Tuttavia, in anni più recenti, i danni causati dal traffico e dall’inquinamento alla vivibilità urbana delle nostre città sono stati sempre più riconosciuti e la nuova attenzione alla salvaguardia dei centri cittadini ha anche favorito recenti interessi verso alcune aree di incontro pubblico, volutamente punto di congruenza tra coloro
che costruiscono i palazzi e la pressione (ambigua) degli urbanisti.
Agli inizi degli anni ottanta, l’epocale programma di riqualificazione urbana di Barcellona trasformò quella città nel più formidabile cantiere europeo fondato sulla riprogettazione degli spazi pubblici, e fece scuola nella amministrazioni e nelle facoltà di architettura di mezza
Europa. E in tanti, ancora oggi, sono convinti che tale esperienza sia esportabile in tutto il territorio delle nostre città, specialmente nelle parti più degradate, quelle fuori Piano, quelle informi, quelle abusive. E i tanti amministratori, specie quelli più progressisti, credono che il problema delle città si possa risolvere sottoponendo ogni parte del territorio inurbato a tale trattamento. D’altro canto la richiesta della gente che abita le città non è diversa. Attraverso una
miriade di comitati più o meno spontanei o più o meno ambientalisti, associazioni di quartiere, sindaci (aimè) tornacontisti o falso-buonisti, la gente chiede Piazze, il Verde, il Portico, il pavimento in Pietra, il lampione di fine Ottocento ed altro. Eppure ogni nuova piazza inaugurata, sembra produrre un senso di frustrazione, spaesamento ed indecisione di giudizio nella gente che poi in quella piazza non ci va nemmeno la domenica perché, ovviamente, preferisce andare
nei centri commerciali sempre aperti o nello spazio gioco di un autolavaggio self service. Ma non nelle piazze. Intanto quegli stessi spazi appena ultimati sono preda dell’incuria, dell’impossibilità di mantenerli e del rapido degrado. Eppure gli architetti si chiedono perché. In fondo non è che nei loro progetti ci sia qualcosa di sbagliato: chi preferisce i mattoni di pietra o quelli color mirtillo, chi preferisce un lampioncino a lanterna, piuttosto che in acciaio inox, chi la collocazione di una nuova ma anche “antica” struttura liberty: per carità, tutto va bene (a proposito, dove eravamo quando, per primi, dalla pagine di questa Rivista, in pieno dibello-style, si faceva
notare che non fosse proprio “onesta intellettualmente” la struttura di Piazza Garibaldi? N° 15/2003. ndr ). Diciamo la verità, noi architetti non riusciamo più a costruire nessuna identità convincente dello spazio urbano. Il problema dunque non è formale ma concettuale.
Il meccanismo che attraverso le piazze, i sagrati, i portici, i tridenti, le pietre, in una parola l’”identità” ha legato in duemila anni l’agire politico delle persone agli spazi fisici della città non è più utilizzabile.
Lo spazio non è più capace di diventare luogo, mettiamoci l’anima in pace una volta per tutte. Di fatto la “nuova attenzione” per lo spazio urbano maschera sempre un interesse diverso e, come
detto prima, l’abolizione del traffico veicolare nelle strade centrali è barattato con l’incremento dello sviluppo commerciale o con la possibilità di estendere la superficie all’aperto di un caffè, o di un luogo in cui sedersi. Resta tuttavia il fatto che questi luoghi non sono sempre completamente “pubblici”; la loro ubicazione, le attività che vi si svolgono, e la “discreta” sorveglianza che li circonda vengono considerati da alcuni come luoghi sicuri e da altri come respingenti.
Nelle attività commerciali vi è più possibilità di interazione sociale, sempre però sotto gli attenti e vigili occhi del personale impiegato. Per le nuove strade lastricate di pietra bianca, attori e musicisti vengono sempre più spesso invitati ad esibirsi perché i passanti si sentano a
proprio agio (ma si usano, a Natale e a Pasqua, anche gli altoparlanti appesi ai balconi con le musiche di Nat King Cole o di Renato Zero…). Tutte iniziative per rendere più forzatamente urbana l’atmosfera di un luogo pubblico. Che però non è più un luogo. La riqualificazione
dello spazio pubblico non è un problema di arredo urbano anche se non vorrei che qualcuno mi fraintendesse pensando ai mattoni, color yogurt al mirtillo, della nostra città. Già, perché quelli sempre si continuano a mettere (allora il dibello-style non è ancora finito?)! Non credo, pertanto, che convenga percorre la strada della protesta, almeno da parte di noi architetti, se non proviamo a dare una risposta costruttiva e, soprattutto, una risposta alternativa convincente.
Tanto per cominciare, allora, questi spazi pubblici per quale pubblico sono? Ormai sull’orlo di una crisi di nervi per la continua incomprensione con l’albertiano progetto umanistico di città e
ripensando alle piazze di Barcellona con belle forme e artificiose naturalità, proviamo comunque a riconsiderare l’architettura ereditata per gli spazi pubblici ancora riconoscibili nei nostri centri
cittadini. Per quello che mi riguarda, come tarantino, nella nostra città posso facilmente notare le quinte spaziali progettate, anche se in parte mai realizzate, intorno alla Piazza Ebalia, così come
l’inquietante e discutibile scenografia del Palazzo di Brasini che si affaccia sulla Rotonda; poi anche la Piazza di Piccinato alla Bestat, memoria democristiana di uno spazio pubblico mai usato, così come la piazza della Concattedrale con le tanto amate e odiate vasche oggetto quotidiano di un accanito rimaneggiamento che credo non abbia precedenti nella storia di uno spazio pubblico. Tutti luoghi oggi comunque ameni ma che, allo stesso tempo, ritengo debbano essere ancora “salvati” intellettualmente al cospetto delle oscenità dei giorni nostri, ancora in costruzione, tra i nuovi quartieri di Lama, San Vito e Tramontone. Ancora auspico sull’argomento un cospicuo apporto sulle pagine di questa rivista da parte dei colleghi della Provincia, con tanti centri urbani fatti di spazi pubblici riconoscibili e non. L’unica differenza che c’è tra gli spazi urbani di ieri e di oggi è proprio che in quelli di ieri è ancora riconoscibile una “qualità” progettuale almeno
teorica, orgogliosamente e retoricamente fatta da un architetto, ma comunque onesta anche se enfatica per alcuni, troppo disegnata, se volete, ma comunque individuabile nell’identità di quel periodo politico e sociale. Per il resto è sempre un “non luogo”.
Come fare dunque per progettare ancora? Si, perché ancora spazi ce ne sono da progettare. Pensiamo a quante aree si creano automaticamente quando si realizza una infrastruttura, un
sovrappasso veicolare, un nuovo svincolo stradale urbano (occhio alle rotatorie che finalmente arrivano anche da noi..), tutti spazi che vengono considerati non per architetti, ma piuttosto per i tavoli dell’ufficio Lavori Pubblici, che pure ne ha competenza ma non ne ha le capacità. Il nostro territorio, in particolare, non è stato in grado di sollecitare il rispetto da parte dei suoi operatori pubblici perché non li ha mai educati al progetto degli spazi. Da questo punto di vista molti
allontanano l’ipotesi dell’interevento di qualche Archistar per ridare qualità ai nostri pezzi di città. Ma forse proprio qualche intervento “dotto” potrebbe innescare almeno un dibattito interno tra noi architetti locali, o comunque apportare luce nuova negli occhi di chi
ci amministra. Non sicuramente un toccasana, lo riconosco, ma solo una specie di sasso nello stagno. E tali meccanismi possono partire solo da un grande interesse attivabile tramite procedure concorsuali di idee, con forte spinta pubblicitaria e controllate da una specifica
azione che il nostro Ordine dovrebbe promuovere. Penso alla possibile dismissione di aree demaniali e quant’altro che potrebbe coglierci, per l’ennesima volta, impreparati.
Quindi, intellettualmente parlando, il nuovo progetto urbano dovrebbe investire nel rappresentare l’identità di ogni soggetto avente diritto di veto, nel rappresentare le più disparate categorie sociali, nell’ascoltare ogni voce, pensiero ed opinione. Dovrebbe essere
economico, funzionale, opulento e simbolico. Essere riconoscibile, ma anche non corporativo, commerciale ma anche non controllato, altamente tecnologico ma anche “attento” urbanisticamente, bioclimatico e funzionale, minimale e rigoroso, straordinario ma normale. E soprattutto dovrebbe essere il contrario di un luogo.
Possibile tutto questo?
Forse però gli architetti dovrebbero pretendere, e mostrarsi capaci, di governare gli spazi pubblici con regole disciplinari pagando il prezzo dell’aggiornamento delle regole stesse e senza legarsi ancora all’urbanistica dei numeri, continuamente riproposta sotto velate spoglie.
Ma allora perché a Barcellona “la piazza” ha funzionato? Perché, anche se non lo vogliamo digerire, le piazze di Barcellona sono dentro il suo vecchio centro storico, trasformato in shopping mall all’aperto e privo dei suoi abitanti. Ecco perché la gente ci va anche di domenica. Anche se la maggior parte degli architetti, me compreso, non ci credono.

Gli spazi urbani. Sguardi su Taranto


VIAGGI E MIRAGGI
Un pomeriggio alla scoperta della città tra il paradosso e l'inspiegabile

di Massimo Prontera

Chi conosce Taranto per le sue immagini da cartolina, per i suoi tramonti memorabili, per i suoi due mari ed i suoi tre ponti, chiuda gli occhi e provi a dimenticare per un momento i suoi
ricordi e le immagini incise nella sua memoria e si imbarchi con noi in un breve ma ricco viaggio all’interno della città nascosta, della città che non appare ma esiste, un breve viaggio nella città reale, con cui ogni cittadino quotidianamente è costretto a convivere e a rapportarsi. Noi
questo viaggio l’abbiamo fatto e proviamo a raccontarlo attraverso le note appuntate sul nostro taccuino e le immagini rubate dalla nostra macchina fotografica,diviso in dieci piccole tappe, accompagnati dalla colonna sonora del nostro lettore cd.

Tappa1: “Mare mare, qui non viene mai nessuno a trascinarmi via…”
(da “Il mare d’Inverno”. Loredana Bertè)
Decidiamo di iniziare il nostro viaggio dal mare, proprio quel mare che avvolge Taranto da ogni suo lato, punto di approdo nel passato di popolazioni e genti più varie e meta agognata oggi delle torride giornate d’estate. Ci dirigiamo verso l’area residenziale di San Vito, a pochissimi
chilometri dalla cosiddetta città consolidata, soffocata dalle sue tante ville sul mare. Costeggiamo viale del Tramonto. Un nome così suggestivo lascia pensare a scenari meravigliosi e a paesaggi
paradisiaci. Qui fino a pochi anni fa non c’era quasi soluzione di continuità tra la spiaggia e la strada. Ma ora della lunga e informe distesa di sabbia bianca e della rigogliosa vegetazione spontanea che caratterizzava questa striscia di spiaggia lungo il viale è rimasto ben poco. Tutto è stato regolarizzato, disegnato, schematizzato. Ci accoglie ora un desolante piazzale costituito in gran parte da pedane, pavimentazioni e gradinate in calcestruzzo e piazzole per il parcheggio
delle auto. Blocchi cubici in cemento sembrano galleggiare in una vasca ricolma d’acqua di mare. Nulla che lasci pensare ad un punto di aggregazione per i residenti del quartiere o per turisti di passaggio.
Scattiamo alcune foto, prendiamo alcuni appunti e andiamo via.
Delusi ci lasciamo alle spalle il mare e decidiamo di dirigerci verso la città.

Tappa 2: “A vent’anni la vita è oltre il ponte… “ (da “Oltre il ponte”, Modena City Ramblers. Testo di Italo Calvino)
Ci lasciamo alle spalle le spiagge di San Vito e ritorniamo verso la città. Dopo aver oltrepassato i resti di ciò che doveva essere un tempo non troppo lontano una prestigiosa zona balneare, ci
accorgiamo con stupore e curiosità di passare al di sotto dell’unico ponte “griffato” d’Italia. Non possiamo ignorarlo. Non riusciamo a fare a meno di fermarci un momento. Il tutto è troppo curioso e divertente. La grande opera pubblica è firmata da entrambi i lati. Due grandi cartelloni avvertono la popolazione che proviene dai due sensi di marcia di chi sia la responsabilità di quell’opera. Una cosa è certa. In caso di necessità sapremo almeno con chi prendercela…

Tappa 3: “là dove c’era l’erba ora c’e una città…” (da “Il ragazzo della via Gluk”, Adriano Celentano)
Ci dirigiamo verso i nuovi quartieri della città, ed in particolare nella zona denominata Taranto 2. Il nome del quartiere è altisonante e fa riemergere alla mente esperienze urbanistiche analoghe
sperimentate in altre realtà italiane, molto lontane dalla nostra. Chissà se anche qui il Biscione ci ha messo lo zampino... Ma di case immerse nel verde e di laghetti dei cigni qui non v’è traccia. Sarà la stagione che si approssima all’estate ma qui il colore predominante è il giallo dei campi arati e arsi dal sole e il grigio cupo del cemento. Nessun albero, alcun prato fiorito. Ogni tanto si scorge all’orizzonte qualche sprazzo di colore, un rosa, un fucsia, un viola, improbabili accoppiate
cromatiche con cui sono stati decorati alcuni palazzoni che hanno più del popolare che non del residenziale. Tra depositi munizioni, recinzioni militari e ampi spazi vuoti e desolati sorge qua e là un edificio. Scorgiamo la sede della nuova Questura, un grande monoblocco di vetro e cemento, praticamente realizzato al centro del nulla. Scattiamo qualche foto ricordo ma la cosa evidentemente non piace molto agli inquilini in divisa dello stabile in questione che,
accorsi in gruppo verso di noi si apprestano in tutta fretta a identificarci e a chiederci spiegazioni. In attesa di riavere i nostri documenti, chiusi in una anonima sala d’attesa, la riflessione è d’obbligo. Cosa ci sarà davvero di strategico in questa struttura da non poter nemmeno
immortalare il suo valore architettonico? Dopo una mezzora, chiarito l’equivoco, veniamo congedati e possiamo proseguire il nostro giro turistico in tutta libertà.

Tappa 4: “frena che voglio andare al mare…” (da “Frena”, Carlotta)
Un dettaglio colpisce tra tutti. Non è una illusione ottica o un abbaglio prospettico. Due edifici, uno più alto ed uno più basso appaiono un po’ troppo vicini l’un l’altro. Ci avviciniamo. Assistiamo increduli a questo spettacolo del quale non è davvero facile darsi spiegazione. Due edifici distinti si sfiorano, non si toccano tra loro per una manciata di centimetri. Con un po’ di immaginazione sembra addirittura che il palazzo più basso abbia pigiato il pedale del freno appena in tempo per non cozzare contro il palazzo più alto. Solo pochi centimetri separano le due costruzioni.
I cittadini residenti nei due stabili però non si sono persi d’animo e sono andati oltre, tentando di gettare un ponte di pace fra queste due entità, unendo tra loro quello che probabilmente unito non sarebbe mai dovuto essere. Chi ha realizzato un balconcino, chi un pergolato fiorito, chi ha semplicemente ha usato il palazzo vicino per stenderci il proprio bucato al vento. Questione di organizzazione. Portiamo con noi qualche ricordo e veloci ci lasciamo alle spalle questo inconsueto spettacolo.

Tappa 5: “danza la fame nel mondo e un tragico rondò…” (da “Cosa resterà degli anni 80”, Raf)
Il nostro tour prosegue in direzione centro città. Giungiamo ad un originale rondò alberato. Dove un tempo i bambini del quartiere potevano esercitarsi con i pattini a rotelle, oggi sorge un’autostrada in città ma per gli anziani è stato riservato un posto dove riposarsi all’ombra dei pini tra panche e fioriere in cemento e anonime steli artistiche dal criptico linguaggio contemporaneo. Un angolo di paradiso circondato a pochi metri da migliaia di auto che sfrecciano veloci durante tutto il giorno.


Tappa 6: "salirò salirò tra le rose di questo giardino..." (da "Salirò", Daniele Silvestri).
Sul fondo del Viale Magna Grecia una singolare aiuola in erba sintetica da il benvenuto in città al malcapitato turista di turno. Una leggenda vuole che in zona vi fosse un grande vivaio abusivo in seguito espropriato per far posto ad un nuovo giardino pubblico. A dire il vero di verde ne è rimasto ben poco, alcuni alberi e qualche aiuola. La cosa che però attira di più la nostra attenzione è la singolare fontana che campeggia al centro del grande piazzale. La scultura, nelle intenzioni dell’artista rappresenta un gioco di delfini imbizzarriti avviluppati gli uni con gli altri. Dell’acqua però nemmeno una traccia. Un cartello ci avvisa inoltre che dovrebbe esserci in zona anche una pista ciclabile, ricordo di antichi “fasti” della città, ma anche qui della pista come delle biciclette non v’è alcuna traccia.

Tappa 7: “mi son vestito da guardiano e sono andato all’acquedotto…” (da
“Acquedotto fosforescente”, Tricarico)
La nostra visita alla scoperta dei tesori nascosti della città ci porta ad incrociare le antiche vestigia della Taranto greca e romana. Percorrendo con l’auto Corso Italia, asse viario centrale dell’omonimo rione, il nostro sguardo si rivolge a ciò che sembra essere un cumulo di sassi e muretti crollati. Semisepolti tra alte erbacce e pattume vario sorge ciò che resta dell’antico acquedotto romano. E dire che un grande cartello ci avvisa che lungo il nostro percorso potremo ancora imbatterci in altri ritrovamenti archeologici di questo genere. Se il buongiorno si vede
dal mattino…

Tappa 8: “coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più…” (da “Com’è bella la città”, Giorgio Gaber)
Il piazzale cosiddetto Bestat è facile da riconoscere. I suoi alti grattacieli sono lì da quasi quarant’anni a ricordare come è possibile fare buona architettura e non saperla gestire. Lo sfrecciare delle auto al di sotto del grande piazzale è il suono ricorrente, monotono ed assordante.
Il piazzale ora è vuoto, assolato, troppo grande forse per essere percepito come punto di aggregazione. Troppo grande per non disorientare il passante. Intanto i segni del tempo
iniziano a farsi sentire. Il cemento si sgretola e la pavimentazione si solleva.
Un paradiso per gli skater, gli unici che appaiono davvero divertiti.

Tappa 9: “…sulle panchine in Piazza Grande…” (da “Piazza Grande”, Lucio Dalla)
Ci lasciamo alle spalle il Piazzale Bestat e ci dirigiamo verso il centro cittadino.
Ma non possiamo ignorare il grande vuoto urbano di Piazza Marconi. Da ex mercato cittadino la piazza è stata trasformata in anni passati in un originale giardino pubblico, con aiuole, panchine ed anche un chiosco bar, con l’ambizione di divenire il nuovo punto di aggregazione per i cittadini
del quartiere. Ma di buone intenzioni è lastricato il mondo...


Tappa 10: “…con 2 suore che camminano vicine in una piazza con un grande monumento…” (da “Milano”, Alex Britti)
Ultima tappa: Piazza Bettolo. Un Poseidone in miniatura con in mano stretta una forchetta da dolce al posto di un tridente e quattro cavalli imbizzarriti sono gli elementi decorativi della
fontana in cemento posta al centro della piazza, degna di campeggiare nei giardini delle migliori ville dei casalesi, come raccontato nel best seller di Roberto Saviano. L’ennesima occasione persa da questa città e l’ennesimo trionfo del cattivo gusto dilagante… Ma qualcuno non aveva anche organizzato un concorso di idee su quella piazza? Stanchi ma appagati, terminiamo qui il nostro percorso alla ricerca dei luoghi del paradosso e dell’inspiegabile, sicuri di aver solo compiuto
parte di questo viaggio e che nuove avventure potranno coinvolgerci ancora nel prossimo futuro.
Unica consolazione, l’aver trascorso un originale pomeriggio al sole con amici, ascoltando comunque buona musica.

La legislazione


PUO' UNA LEGGE CREARE LA QUALITA'?
Uno sguardo alla legislazione in materia di valorizzazione dell'architettura

di Antonello Simeone

Nella civiltà dei consumi e della comunicazione molte categorie di beni e prodotti sono codificate in “categorie di qualità”, spesso prodotte da processi di tutela geografica o tipologica, non di rado assistite da complessi apparati normativi e legislativi, più volte giustificate da ragioni puramente commerciali e di interesse “mercantile”.
Ci si può chiedere, quindi, legittimamente, se anche per l’Architettura si possa, o sia giusto, pensare ad un “marchio di qualità” codificato… Per ragionare, allora, di “qualità nella legislazione per l’Architettura” non si può omettere di fare riferimento a due testi primari, per molte ragioni, tra loro diversi, nel merito e nella forma: la nostra Carta Costituzionale (“Costituzione della Repubblica Italiana”) e la notissima Loi n.77‑2/1977 “sur l’Architecture”.
All’articolo 9 della Carta, infatti, si legge: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”: già nel 1945, quindi, i Costituenti sentirono la necessità, inserendola nella parte prima, inderogabile, della Legge Fondamentale, di evidenziare l’importanza, per lo Stato, di promuovere la cultura, la ricerca e la tecnica, concetti non a caso accompagnati e correlati alla tutela del
paesaggio, del patrimonio storico e delle manifestazioni dell’Arte.
E’ da intendere, certamente, questo, come un chiaro richiamo alla centralità del concetto di qualità della ideazione e, qui, particolarmente, dell’Architettura, in quanto strumento straordinario e insostituibile per perseguire il pubblico interesse oltreché mezzo elettivo per la
costruzione di un patrimonio culturale condiviso e maturo.
Pur chiaramente espressa nella Costituzione, la centralità sociale e culturale della qualità architettonica è rimasta a lungo, in Italia, una pura enunciazione di principio, superata e mortificata tanto dalla deregulation anglosassone, che dall’ipertecnicismo di ambito germanico, che dall’ntellettualismo francese, esso, sì, capace di concepire, all’pice delle trasformazioni urbane degli anni Sessanta/Settanta, quello che ancora oggi è considerato, ad oltre trent’anni dalla sua promulgazione, il principale testo europeo sull’architettura.
La Loi sur l’architecture, infatti, enuncia, specie nei suoi primi 8 articoli, alcuni principi, semplici, ma essenziali ed efficaci, che rappresentano una prima declinazione del concetto di “Qualità in
Architettura”; qui i più incisivi e coerenti: “L’Architecture est une expression de la culture”: è l’incipit dell’articolo 1 che si pone come postulato imprescindibile; (…) la creazione architettonica, la qualità delle costruzioni, il rispetto dei paesaggi naturali o urbani assumono valore di interesse
pubblico e le autorità deputate al rilascio delle autorizzazioni al costruire si assicurano, nel corso delle relative procedure, del perseguimento di questi obiettivi (art.1);
chiunque intenda procedere alla realizzazione di opere soggette ad autorizzazione a costruire deve rivolgersi ad un architetto (art.3);
(…) il progetto architettonico si definisce coerentemente attraverso tutti quegli elaborati grafici che possano esprimere, compiutamente, le caratteristiche dell’insediamento, i principi compositivi degli edifici, la loro organizzazione funzionale, i materiali costitutivi, i colori, ecc. (art.3);
(…) vengono creati i “conseil d’architecture, d’urbanisme informazioni e sviluppo della sensibilità e dello spirito di partecipazione delle comunità in merito ai temi dell’Architettura, dell’Urbanistica e dell’Ambiente: essi, inoltre, favoriscono, promuovono e vigilano sulla
qualità architettonica soprattutto in riferimento all’uso dell’ambiente e alle trasformazioni in atto sul paesaggio urbano e rurale (art.7).
Cosa ricavare da tali enunciazioni? Innanzitutto l’affermazione precisa, forte e assiomatica che l’Architettura è una espressione della cultura e, quindi, componente costitutiva del
patrimonio collettivo di socialità, storia, memoria, ecc, e, come tale, valore inalienabile, non derogabile o commercializzabile, responsabilità primaria dello Stato e delle sue Istituzioni, a qualsiasi livello; conseguentemente, che la qualità architettonica si declina, innanzitutto,
a partire dal rapporto tra costruito e ambiente, naturale e antropico, secondo i suoi significati funzionali, tecnici, formali ed estetici e che il suo linguaggio d’elezione (il disegno) debba essere, anche per questo, compiuto, corretto, chiaro, curato, comprensibile, …
Vi si trae, poi, l’affermazione della insostituibilità del ruolo dell’”Architetto” e la necessità di condividere, con la collettività, gli interventi di trasformazione del territorio e del paesaggio
urbano e naturale, attraverso i linguaggi propri dell’Architettura e dell’Urbanistica.
Sono assunti, questi, che costituiscono, altresì, l’idea guida della risoluzione n.13982/00 del Consiglio dell’Unione Europea del 12 gennaio 2001 nella quale, tra l’altro, si stimolano gli Stati membri “ad intensificare gli sforzi per una migliore conoscenza e promozione dell’architettura e della progettazione urbanistica, nonché per una maggiore sensibilizzazione e formazione dei committenti e dei cittadini alla cultura architettonica, urbana e paesaggistica” nonché
“a promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica”.
E in Italia? Il velo di silenzio sulle vicende dell’Architettura, e sulla sua qualificazione, in particolare, si incomincia a disvelare a partire dalla metà degli anni Novanta in occasione del lungo (e spesso improduttivo) dibattito intorno alla cosiddetta “Legge Melandri” che,
oltre il suo sostanziale fallimento, ha avuto il merito, se non altro, di richiamarsi, almeno idealmente, ai principi sanciti nell’art.9 della Costituzione ragionando, soprattutto nelle Opere Pubbliche, non più solo in termini di appalti, procedure, penali, capitolati, ecc.
Nessun risultato concreto, però (che fine ha fatto quel “Manifesto degli Architetti Italiani” tanto propagandato dal CNA dopo il Congresso di Torino dell’ottobre 1999?), di lì trascinando il dibattito sempre più verso il basso, sino alla attuale XVI Legislatura, ove, non senza una certa sorpresa, sulla qualità architettonica, ben tre Disegni di Legge risultano presentati al Senato: il ddl 1264 proposto dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali ed altri “Legge quadro
sulla qualità architettonica”, il ddl 327 d’iniziativa del senatore Zanda “Legge quadro in materia di valorizzazione della qualità architettonica e disciplina della progettazione”, il ddl 1062 del senatore Asciutti ed altri “Legge quadro sulla qualità architettonica”.
Nuovo brio? Nuova esuberanza legislativa? Nuovo intenso, approfondito e fervido dibattito intellettuale, protagonisti l’intelligenthia più dinamica e avanzata del nostro tessuto culturale,
la politica più progressista e riformatrice e, ovviamente, il mondo professionale, con in testa quello degli Architetti…? o invece…?
...Invece, tra qualche slancio illuminato e qualche timida affermazione concretamente innovativa, vi traspare un approccio banale, mediocre e poco coraggioso lì dove, invece, per lo stato attuale delle cose, sarebbero necessarie e improcrastinabili assunzioni decise, audaci e, finanche, spericolate: appare questo un chiaro segnale che ognuno dei tre testi proposti sia frutto non di un dibattito ampio, coinvolgente e compiuto, aperto ai politici, ai tecnici, al mondo culturale e artistico e, soprattutto, alla società civile (e se l’Architettura è espressione della cultura,
non sarebbe potuto essere altrimenti…!!!), ma una sorta di affermazione assoluta, vaga e un po’ formale, senza anima e vigore, che non può trovare semplicistica giustificazione nella necessità, sancita dall’art. 117 della Costituzione, di limitarsi esclusivamente a “principi quadro” nell’ambito di materie concorrenti. Diamo uno sguardo sommario ai contenuti dei disegni di legge...
Il testo proposto dal senatore Zanda (ddl 327), introducendo nell’ordinamento la nozione di “qualità architettonica”, afferma il concetto che la progettazione architettonica debba assurgere a direttrice primaria della cultura contemporanea e che, conseguentemente, essa costituisca patrimonio di una società avanzata divenendo diritto dei cittadini: inoltre, accanto ad
alcuni concetti riferiti alle modalità di svolgimento dell’attività professionale, stabilisce alcuni criteri perché si perseguano “obiettivi di qualità” nell’ambito delle opere pubbliche, prevedendo lo stanziamento di somme annuali per l’incentivazione della qualità del progetto, soprattutto, attraverso il ricorso ai concorsi di progettazione.
E’ questo il testo che appare più vicino, almeno nello spirito, alla Legge francese e che, se non altro, considera l’Architettura di qualità come processo coerente capace di recepire quelle esigenze di carattere funzionale ed estetico poste a base della progettazione e della
realizzazione dell’opera, garantendo il suo armonico inserimento nel paesaggio e nell’ambiente circostante (art. 2).
Il ddl 1062 presentato dal senatore Asciutti definisce la qualità urbana e architettonica come una componente della qualità della vita nelle città in uno scenario, sedimentato diacronicamente,
fatto di aggregati urbani (non più città) e contesti paesaggistici irrimediabilmente modesti e sgradevoli, frutto dell’approssimazione professionale, dell’insensibilità imprenditoriale, della incompetenza amministrativa e del disinteresse delle comunità; propone, inoltre, un “Piano per la qualità delle costruzioni pubbliche” (art.12) e una “Fondazione per la qualità architettonica e dell’ambiente costruito” (art.13).
Le mozioni formulate da Asciutti, in qualche modo, completano e integrano quelle di Zanda soprattutto in merito all’introduzione di organismi di promozione e ricerca, consulenza, produzione e salvaguardia del patrimonio documentale (un po’ alla stregua dei conseil francesi) e alla individuazione di uno strumento operativo, a redazione biennale, che indichi settori e progetti prioritari dai quali trarre i migliori risultati in termini di qualità delle costruzioni (il Piano di cui all’art.12), stanziando le risorse annuali necessarie alla sua attuazione (2,5 milioni di euro a partire dal 2009).
Più modesto per argomentazioni e intenzioni appare, invece, proprio il testo governativo che, proposto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ha visto il concerto dei Ministeri della Gioventù, delle Infrastrutture, dell’Istruzione, dei Rapporti con le Regioni e dell’Ambiente ed è stato approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 19 novembre 2008 per essere poi sottoposto al Senato, il successivo 5 dicembre, per il conseguente iter parlamentare.
Il ddl 1264, infatti, si limita ad una riproposizione, poco coraggiosa e decisa, di vecchie assunzioni ormai superate da anni di dibattiti, a volte tristemente “introversi”, qui trattate, per di più, in maniera generica e poco incisiva (un paradosso se le si pensa proposte proprio dall’Esecutivo) facendo riferimento esclusivamente alle Opere Pubbliche (art.1) per le quali, un po’ sterilmente, si ribadisce la necessità prioritaria di procedere attraverso i concorsi di progettazione, riservando premi speciali ai giovani (art.3).
Si delinea poi il riconoscimento del valore artistico delle opere di architettura contemporanea (art.4) immaginando premi (si badi bene di carattere non economico - art.5) agli enti pubblici o privati che abbiano commissionato opere di rilevante interesse architettonico o urbanistico;
anche il testo ministeriale propone la redazione di un Piano per la qualità architettonica (art.9) e la creazione di un Centro nazionale per la documentazione e la valorizzazione delle arti contemporanee (art.8) finalizzato a “(…) promuovere la conoscenza della cultura del patrimonio
architettonico e urbanistico mediante iniziative culturali, nonché(…) la costituzione di centri territoriali di documentazione(…)”: alla fine non poteva mancare la riproposizione della famosa, quanto inapplicata, Legge sulle opere d’arte nei nuovi edifici pubblici, nota come “legge del
2%”.
Insomma, come è ben evidente ai lettori più attenti: “niente di nuovo sotto il sole…!!!”, anzi… c’è da essere seriamente preoccupati e Il disegno di legge, di fatto, si riferisce esclusivamente alle opere pubbliche ed è rivolto alle Pubbliche Amministrazioni considerate solo come stazioni appaltanti, trascurando che i lavori pubblici rappresentano una percentuale minima di quanto complessivamente costruito e, spesso, già di per sé, di migliore qualità rispetto all’edilizia
corrente e privata, essa sì, spesso, vero emblema della “non‑qualita” architettonica: non sono precisate soluzioni orientate a creare “qualità” non sono proposte metodologie o approcci che possano guidare gli Uffici Tecnici, o altre istituzioni appositamente incaricate, alla verifica del valore della progettazione, non sono individuate risorse finanziarie dedicate (tutto dovrà essere a “costo zero”), non è innescato un processo di maturazione culturale d’insieme che abbia
protagonista l’intera collettività e la società civile, non è attivato un “percorso virtuoso” nel quale coinvolgere, soprattutto, gli istituti scolastici e le agenzie formative.
Sostanzialmente ci si limita alla retorica esaltazione dei concorsi di progettazione, “panacea di tutti i mali”, (come se l’esperienza italiana abbia sin qui dimostrato la loro efficacia o inattaccabilità rispetto alle prassi incancrenite di assegnazione degli incarichi), al demagogico
riferimento ai “giovani”, come necessario ingrediente per innovare (come se “giovane” (e chi scrive non ha ancora compiuto i Quaranta) sia solo colui che lo attesta anagraficamente, attentamente eludendo che, ad esempio, “creativamente dinamici” erano il settantaquattrenne Le Corbusier del Piano di Meaux, o il centenario Niemeyer dell’Auditorium di Ravello), al ribadito obbligo di riserva di destinazione del 2% dell’importo dei lavori ad opere d’arte (come se
una legge risalente al 1949, disattesa per più di mezzo secolo, possa improvvisamente rivivificarsi, o come se la “buona architettura” non possa essere considerata, di per sé, “opera d’arte”).
Ovviamente eludendo attentamente di riconoscere che la “Qualità” si raggiunge innanzitutto se “di qualità” sono, nel contempo, i professionisti (certo non quelli a cui si annullano le garanzie finanziarie minime liberalizzando lo scempio delle tariffe, incrementando, contemporaneamente, le responsabilità e gli adempimenti), gli imprenditori (spesso costretti a confrontarsi con un mercato tutt’altro che “puro” e trasparente), i funzionari pubblici (spesso incapaci anche solo di comprendere coerentemente la progettazione), le procedure autorizzative, le normative
e i regolamenti (contraddittori, inadeguati, carenti o inutilmente sproporzionati), e così via, e che la “Qualità” ha il suo costo in termini di aggiornamento professionale, adeguamento progressivo front/back, trasparenza, responsabilità,…
Diverso il panorama regionale? In Puglia, con la Legge Regionale 10 giugno 2008, n.14,
un’Amministrazione che intende rappresentarsi come innovativa, progressista e partecipata ha emanato un testo normativo che, riprendendo quanto da anni già “trito e ritrito”, non innova, non delinea “progressi”, non favorisce la partecipazione: anche qui, dopo le solite affermazioni di principio ci si risolve nella semplicistica attestazione che i concorsi di idee e di progettazione sono
“la principale garanzia per conseguire le finalità di qualità delle opere di architettura” (art.5), senza, però, dettare livelli di prestazioni, metodologie di relazione, regole di impegno, soprattutto, per le Pubbliche Amministrazioni.
D’altra parte quanto si confidi nella bontà e concreta applicabilità della Legge lo dimostra il fatto che, ad un anno dalla sua promulgazione, l’amministrazione regionale non ha ancora emanato nemmeno il Regolamento di cui all’art.16 e, tanto meno, ha soddisfatto gli impegni che
essa stessa aveva assunto ai precedenti articoli…
E allora la domanda iniziale dovrebbe più coerentemente derubricarsi in: può una legge creare la Qualità in Architettura? O, piuttosto, può solo limitarsi a delineare un contesto culturale e di opportunità volto a renderla concretamente raggiungibile, salvaguardando la buona progettazione e penalizzando quella mediocre, premiando (anche finanziariamente) gli approcci coerenti e maturi, semplificando le procedure, liberando il lavoro professionale da quella pletora di complessità e artificiosità inutili e dannose il cui soddisfacimento, troppo spesso, appare surrogare la qualità della progettazione? Se l’Architettura (e la sua ideazione, la sua creazione, la sua realizzazione, la sua qualità, la sua innovatività, la sua importanza sociale, l’essere testimonianza, l’essere memoria, l’essere testo collettivo, ecc.) è espressione della cultura, non è più coerente chiedersi se questa società, e i suoi modelli culturali dominanti, sono pronti, oggi, per una nuova qualità della progettazione?

INTERVENTI. Arch. Di Giacinto - Ing. Perchiazzi


"A LA RECHERCHE DE LA QUALITE' PERDUE" NELLE OPERE PUBBLICHE


Come declinare il tema della “qualità” della/nella progettazione delle Opere Pubbliche? Quali gli strumenti procedimentali previsti dalla legislazione vigente che possano consentire di perseguire “obiettivi di qualità”?
Queste le tracce principali su cui si sono incentrate le conversazioni che ARCHITETTITARANTO ha pensato di proporre ai dirigenti degli uffici di progettazione opere pubbliche per la Provincia di Taranto (Arch. Roberto di Giacinto) e per il Comune di Taranto (Ing. Nicola Perchiazzi) riportando, quasi in parallelo, i due punti di vista e cercando di ricostruire, ugualmente, un percorso comune.

conversazioni a cura
di Antonello Simeone e Filippo Piccinno

ARCHITETTITARANTO: si potrebbe partire proprio dal cercare di comprendere quale “qualità” è richiesta ad un’opera pubblica…
ARCH. DI GIACINTO: innanzitutto è da effettuare una distinzione tra “qualità della progettazione” e “qualità del progetto”, inteso come prodotto finale, risultato conclusivo, tanto più nell’ambito degli interventi di edilizia, rispetto a quelli di infrastrutture….
Ovviamente il punto di partenza per ogni ragionamento è quello normativo, vincolante soprattutto nelle procedure di affidamento… Lo sforzo, quindi, tenendo conto dei principi essenziali sanciti nella legislazione comunitaria, è quello di mediare tra la correttezza e
legittimità del procedimento (finalizzato ad individuare il soggetto affidatario) e l’obiettivo di conseguire la “qualità”, obiettivo che, nel D.P.R. 554/99, trova, quanto meno, un’interpretazione tecnicistica (quantità, tipologia e numero di elaborati, problematiche ambientali, riferimenti normativi, processi di validazione, e così via): è questo, indubbiamente, un protocollo di verifica della qualità rigido e, per così dire, “formale” che non consente, in fondo, l’espressione di
approfondite e complete valutazioni “di merito”.
Nello specifico, ritengo più adatte a conseguire la “qualità” nella progettazione le procedure di affidamento tramite offerta economicamente più vantaggiosa o per mezzo di concorso di
progettazione, specie per opere e importi rilevanti, procedendo, quindi, con l’individuazione, prima, dei soggetti idonei a concorrere e, successivamente, attraverso la selezione delle migliori proposte formulate, scelte per caratteristiche qualitative e metodologiche…

AT: …quali, allora, i criteri di giudizio che, attraverso l’offerta metodologica, consentono di giungere alla “qualità”, riservando precise garanzie alla Stazione Appaltante?
A.d.G
.: personalmente condivido con convinzione l’impostazione che è pervenuta dalla Comunità Europea in merito agli affidamenti di servizi (cfr. circolare 1° marzo 2007), in particolare, per quanto concerne la procedura tramite “offerta economicamente più
vantaggiosa”, ove è stata individuata una precisa distinzione tra professionalità e caratteristiche del soggetto partecipante (cioè gli aspetti, per così dire, “strutturali” e curriculari del concorrente) e offerta tecnico‑economica proposta, la quale deve essere necessariamente attinente l’oggetto dell’intervento così da poter più coerentemente stimarne e misurarne il “valore” e la qualità. Le prerogative soggettive dell’offerente, quindi, hanno lo scopo,
unicamente, di consentire una adeguata pre‑selezione dei partecipanti (nel numero previsto per le procedure “aperte” o “ristrette”), definendo una prima soglia di qualificazione e consentendo, in seguito, di richiedere ai selezionati una proposta mirata sulla base del capitolato predisposto dalla Stazione Appaltante nel quale siano esplicitati i requisiti prestazionali, gli obiettivi del progetto, i criteri qualitativi e le conseguenti metodologie di valutazione: ritengo, così,
tale procedura uno strumento utile ed efficace per il perseguimento della qualità…
La relazione metodologica, ad esempio (alla quale, però, l’Amministrazione non può richiedere surrettiziamente i contenuti di un concorso), dovrà essere redatta come strumento tecnico
“particolare”, non generale e indefinito, e, in conseguenza, elaborato specificatamente per l’oggetto dell’incarico con lo scopo, soprattutto, di evidenziare le singole e particolari problematiche, individuando le specifiche soluzioni e le varianti possibili: è questo, però, un
approccio che non di rado viene eluso dai concorrenti…

AT: perché non procedere allo stesso modo anche per gli incarichi al di sotto dei 100.000 euro, allora?
A.d.G
.: è possibile: certo il ricorso ad una procedura comunque complessa come questa deve trovare ragione in una giustificazione coerente, soprattutto facendo riferimento alla complessità delle opere e all’entità economica dell’incarico: non può trascurarsi, poi, che, considerato il complessivo “clima economico” che vivono in questo periodo le Pubbliche Amministrazioni, il ricorso alla procedura “al massimo ribasso” venga spesso privilegiato per pure ragioni “di
cassa”…
AT: difficile però perseguire la qualità ribassando “al massimo” onorari e tempi…
A.d.G
.: certo ridurre esageratamente tempi ed onorari è un rischio per un progetto di qualità, ma, purtroppo, è quanto disposto dalla legislazione vigente, a partire dall’art.64 del D.P.R. 554/99, né è nelle possibilità del RUP, o dell’Amministrazione, poter derogare a tali
prescrizioni… Per quanto riguarda, nello specifico, gli eccessivi ribassi proposti questi dovrebbero forse trovare maggiore argine, in regime di liberalizzazione delle tariffe, proprio nelle norme deontologiche, più che nelle scelte delle Pubbliche Amministrazioni…

AT: è sicuramente vero che una parte sostanziale di responsabilità è del mondo professionale…
A.d.G.: …ecco perché, quando possibile, prediligo l’affidamento tramite offerta economicamente più vantaggiosa, proprio in quanto capace di coniugare al meglio una scelta coerente e “garantita” del progettista, con i benefici tecnico‑economici attesi dalla Stazione Appaltante.

AT: … e per quanto concerne i concorsi di progettazione?
A.d.G
.: E’ una procedura che reputo utile quando l’Amministrazione desidera un prodotto di qualità, altamente tecnologico e dall’evidente valore architettonico, riservandosi, quindi, la possibilità di effettuare la scelta tra i concorrenti non solo in base ad una relazione di
metodo ma anche sulla scorta di elaborazioni grafiche più specifiche ed approfondite: per questo, ritengo, si presti meglio ad opere eminentemente di “architettura” e anche di una certa rilevanza.

AT: affidato l’incarico, allora, nell’ambito del percorso progettuale, quali i requisiti di “qualità” che ritieni imprescindibili? Quale il rapporto di interrelazione tra RUP e progettista?
A.d.G
.: Il punto di partenza è, ovviamente, quanto richiesto dal D.P.R. 554/99 sebbene sia comunque affidato al RUP il ruolo, per così dire, di “personalizzare” quanto richiesto in funzione della natura, complessità e funzione dell’intervento specifico. Per quanto riguarda l’ufficio che dirigo, l’approccio che impieghiamo vede un rapporto molto stretto con i progettisti al fine di ottenere un risultato valido dal punto di vista formale, rispettoso delle norme tecniche vigenti, corretto dal punto di vista regolamentare… In particolare, poi, per le nuove realizzazioni, specie a destinazione scolastica, maggiore impegno è posto, da parte dell’ufficio, ad indirizzare i professionisti verso un prodotto architettonico qualificato facendo riferimento anche a modelli tratti dal mercato privato o frutto delle conoscenze acquisite in ambito pubblico, facendo tesoro,
per quanto è stato il mio personale percorso professionale, delle esperienze svolte come libero professionista, approfondendo lo studio, le analisi e le verifiche soprattutto in fase di progettazione preliminare e definitiva ove affrontare e risolvere tutte le problematiche
realizzative presenti demandando all’esecutivo il ruolo previsto dalla norma di pura cantierizzazione di quanto autorizzato.
AT: …ancora di più se si attribuisce all’Architettura, specie quella scolastica, un valore, per così dire, pedagogico e un significato “democratico”…
A.d.G.:
Certamente: spesso, infatti, gli interventi di cui ci occupiamo nascono da esigenze e bisogni emergenti da addetti e fruitori e con essi affrontati e approfonditi anche tenendo conto dei possibili futuri utilizzi, flessibili e molteplici, degli aspetti gestionali e manutentivi
e dell’evoluzione della didattica facendo sì, quindi, che spesso ci si spinga anche oltre i minimi/massimi previsti dalla legislazione vigente che, per il settore specifico, è, in alcuni aspetti, superata o inadeguata…

AT: …comprendendo anche gli aspetti connessi alla “sostenibilità”…
A.d.G
.: Senz’altro, è auspicabile: tant’è che ho già proposto, in alcuni casi, disciplinari prestazionali proiettati alla “sostenibilità” anche se questo è comunque un aspetto complesso in quanto bisogna comunque relazionarsi con un mondo produttivo non del tutto all’altezza e con i vincoli posti dalla normativa in merito alla scelta e all’individuazione di beni, materiali e fornitori… Indipendentemente da questi aspetti, comunque, un primo passo è certamente rappresentato dalla corretta valutazione del sito, del clima, degli orientamenti, delle forme, e così via…a partire proprio dall’elio‑rientamento, inteso non soltanto come apporto di
illuminazione naturale…
AT: Ma allora: la “qualità” ha il suo costo dal punto di vista progettuale?
A.d.G
.: Sicuramente… anche se dovrebbe essere sempre obiettivo di chi commissiona un progetto, mettere in condizione il professionista di esprimere il massimo del proprio contributo professionale…
AT: …ne consegue quindi un forte impulso al mondo professionale alla qualificazione e all’aggiornamento costante …
A.d.G.: e alla “buona progettazione”!!




ArchitettiTaranto: Le opere pubbliche di ogni città, a cominciare dalle infrastrutture, sono la spina dorsale dello sviluppo di Piano gestito dalle amministrazioni di ogni centro abitato. Qual è il
significato del termine “qualità” nella pianificazione e nella vita quotidiana dell’ufficio preposto ai cosiddetti Lavori Pubblici?
Ing. Nicola Perchiazzi
: Devo prima di tutto spiegare che, a pochi mesi di distanza dal mio insediamento in quest’ufficio (da gennaio 2009 ndr), ho dovuto affrontare immediatamente problematiche relative alla gestione di opere in corso con carattere di urgenza e che, anche se rientrano nell’ordinaria amministrazione delle cose, sono necessarie ed inderogabili. Con questo voglio dire che non c’è stato ancora il tempo per occuparsi delle questioni legate alla “qualità”
che ritengo essere un argomento comunque primario nello sviluppo ed anche, come ho detto, nella semplice gestione ordinaria e nella programmazione del lavoro del nostro ufficio. Personalmente devo raccontare di essere sempre stato un appassionato di architettura e
della storia dell’architettura in quanto, pur da ingegnere laureato con indirizzo edile, ho approfondito spesso le tematiche architettoniche nazionali e le opere realizzate dagli architetti più famosi al mondo. Pertanto capisco bene cosa significhi conferire “qualità” ad un
progetto e cercare di sensibilizzare, soprattutto, le amministrazioni pubbliche su questo argomento.

AT: Quindi sarà d’accordo con l’affermare che per perseguire la qualità nella realizzazione delle opere pubbliche occorre partire da una visione culturale che nasce anche da questi uffici, dai suoi
dirigenti, dalla sensibilità di chi li gestisce e, molto probabilmente, dall’organizzazione funzionale di tutti i suoi reparti…

NP: Certamente non possiamo fare tutto da soli in quanto, e devo essere chiaro, moltissimo tempo viene impiegato per l’organizzazione e la gestione ordinaria dei lavori pubblici quotidiani.
In questo reparto vi è un continuo lavoro basato sulla manutenzione, sulla gestione, sul rapporto quotidiano con il cittadino, che non ci permette di occuparci, in maniere puntuale, di questioni qualitative propriamente dette. Ma a questo proposito devo anche dire che, dovrebbe vedere la luce l’intervento di ristrutturazione del Palazzo degli Uffici che potrà riqualificare una parte del Borgo; inoltre vi sarà una rifunzionalizzazione di uffici importanti, come ad esempio il trasferimento della sede dei Vigili Urbani che, tra l’altro, è proprio visibile da queste finestre…

AT: …si, ma da queste finestre è anche visibile il piazzale BESTAT, una delle ultime opere (e successive a questa, francamente, non ne ricordo) che hanno costruito una parte di città nello spazio di confine esistente tra il pubblico ed il privato, tra gli edifici per uffici e per appartamenti e la piazza attrezzata, il portico, i sovrappassi pedonali, il sottopasso veicolare … insomma un’opera di architettura ed urbanistica con l’identità riconoscibile degli anni in cui fu realizzata…
NP
: E’ vero, spesso l’architettura colta ha avuto una capacità di incidenza troppo limitata sulla costruzione della città. Nel senso che è rimasta accantonata, non si è diffusa, non si è fatta comprendere e quindi è caduta anche nel degrado. Ma questo non significa che non si debbano promuovere interventi di architettura importanti, magari anche con la guida di architetti famosi…

AT: Si riferisce per caso agli interventi delle Archistar? Come vedrebbe, in questo senso, l’attivazione di concorsi pubblici di idee? Magari con l’apporto di qualche importante studio di architettura nazionale o estero sulla nostra città, anche solo a titolo di ricerca, per innescare un dibattito sull’argomento della “qualità” e svegliare l’animo cittadino sensibilizzandolo sulla riprogettazione della città…
NP
: Sarebbe l’ideale poter usufruire anche solo per qualche ora dell’apporto culturale di un grande architetto per conoscere meglio i problemi della nostra città. Anche solo il fatto che le problematiche urbanistiche interne vengano viste con l’occhio di chi viene da fuori, apre nuovi orizzonti e apporta nuove idee su cui discutere…, io sarei e dirò che, siccome sono molto interessato all’argomento, sarebbe il caso di coinvolgere proprio il vostro Ordine, unitamente alle altre organizzazioni, per aprire un tavolo quasi quotidiano su cui incontrarsi per dibattere dei problemi urbanistici del territorio. Ovviamente è materia molto legata all’ufficio Edilità ed Urbanistica, al quale dobbiamo fare sempre riferimento e con cui concertare unitamente
dei possibili incontri con voi e con tutti gli interessati della materia. Devo dire che in questa amministrazione ci sono esponenti che sono molto attenti ed interessati a questi argomenti e, sicuramente, appoggerebbero una iniziativa di questo genere.

AT: Tornando all’argomento della realizzazione di nuove opere pubbliche, ritiene che lo strumento del “massimo ribasso”, sulle offerte economiche, sia garanzia di perseguimento della “qualità” nella progettazione? Esiste la possibilità di controllare qualitativamente un’opera pubblica? Oppure è tutto demandato alla sensibilità del progettista più o meno attento alla qualità della sua opera? E poi perché la realizzazione delle infrastrutture è appannaggio di progetti solo di tecnica delle costruzioni? Anche la progettazione di un cavalcavia stradale può conferire qualità allo spazio urbano di una città, non fosse altro perché si tratta di opere
ad elevata visibilità spaziale.
NP
: Sicuramente il meccanismo del “massimo ribasso” deve essere rivisto, anche se le procedure con cui i nostri uffici possono perseguire la qualità progettuale sono molto legate ai costi delle opere, a chi le dirige, alle imprese… A riguardo delle opere di infrastrutture spesso si pensa che siano di esclusiva competenza ingegneristica e quindi gli architetti non sono purtroppo considerati…, è un fatto di cultura.

AT: Sull’argomento imprese dovrei aprire una parentesi e chiedere anche a Lei come mai oggi, con tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione, le imprese locali siano rimaste al palo e continuino a lavorare, per la maggior parte, con strumenti e tecniche arretrate e legate a tecnologie superate. Per non parlare della manodopera ormai, proprio qualitativamente, di basso livello. Personalmente credo che le imprese siano in gran parte responsabili della mancanza di qualità nella realizzazione di un’opera. Infatti, quando la qualità realizzata esiste, essa stessa è trasversale anche al progetto…
NP: Di fatto constatiamo, nella nostra città, una presenza qualitativa a macchia di leopardo e questo avvalora indubbiamente la sua tesi sulla scarsa scuola imprenditoriale e sulla scarsa qualità del costruito. Inoltre gli interventi sono solo spontaneamente realizzati più o meno meglio di altri. C’è una grossa difficoltà a riconoscere nella produzione estetica dello spazio un ruolo di miglioramento delle possibilità di vita. Io sono personalmente convinto che la qualità degli
spazi urbani determini un grande miglioramento degli stili di vita.
Anche dove c’è il degrado, il progetto ben fatto è molto importante per scoraggiare il vandalismo: il vandalo ha paura del bello e, prima o poi, lo rispetta. Pertanto bisogna insistere sulla strada della qualità. Ma bisogna essere anche attenti a calibrare gli interventi: non basta lastricare di pietra una strada o sistemarci dei lampioni in stile per conferire qualità ad un luogo. Nel mondo ci sono molti esempi di città basate sulla qualità apportata da grandi architetti: sono molto legato,
a questo proposito, all’idea delle opere di architetti come Niemeyer che in Brasile hanno progettato magistralmente l’urbanistica con qualità ed arte. Tutto questo mi interessa molto e, ripeto, siccome non possiamo fare tutto da soli, questo ufficio avrebbe bisogno proprio di un tavolo d’incontro specifico sulla qualità per discuterne soprattutto con voi progettisti.


Pensare Sostenibile

A.A.A. PPC CERCASI IDEE PER MATITE URBANE
MANUALE D(')ISTRUZIONE DELLA SOSTENIBILITA' CIVILE
di Luigi Oliva

“Dans quelques heures l’ensemble des images qu’a produit
l’humanité aura passé en nombre celui des créatures vivantes[.]
la rupture de l’équilibre entre le paraître et la vie.”
(Yves Bonnefoy, Rue Traversière et autres récits en rêve,
Mercure de France, Paris 1987)

Mentre scrivo, nell’ovattata, vibrante, alienazione di un vagone, attraverso un tratto di quell’infinita città-lineare-stagionale che è la costa adriatica, nell’attimo in cui l’estate alle porte
scalda i colori delle relazioni nella decentralità salata all’italiana.
Accompagnato dalle visioni di Bonnefoy, penso all’architettura, che delle immagini ha fatto il suo alimento iperreale, da quando il “maestro” ha lasciato la bolla per prendere la matita e poi il mouse.
Bastano gli architetti per cambiare e governare la città? Evidentemente, no.
Nell’habitat del professionista del XXI secolo, riviste illibate nel loro imene di cellophane ricoprono pavimenti mordentati. Dietro, file polverose di strisce-titolo/autore costituiscono
il necessario background bibliografico, utile per un cordiale lunch tra colleghi. Alberti e Vitruvio
sono i fossili della conoscenza che contendono la retorica delle forme ai “giovani” Giedion,
Christaller, Sitte. Nell’attesa che nasca e muoia persino quel simpatico nonnino di Venturi,
perché non rilassarsi nel classico landscape radieuse, con le torri colorate e i collages di
signorine sunglass che portano a spasso cani bianchi, pelosi, pettinati?
Prigioniere dell’immagine, le archistar «vengono convocate come eroi culturali nei talk-show
che contano. Ma sono in realtà esecutori in bello stile di un’arte regimentale, senza più
nessuna consapevolezza della loro funzione sociale». Le riflessioni di Cristiano de Majo,
che ha attraversato la periferia napoletana per Diario (n.7, maggio 2009, p.17), mi riportano alla
mente l’agrimensore K (F. Kafka, Il castello) per il quale l’agire «si manifesta così perfettamente
prigioniero dell’ordine dei fatti da rendere inconcepibile il timbro stesso della decisione».
Eppure la città è lì, che scorre sempre nuova, come il fiume di quel greco, spinta dall’energia
degli Uomini e della Terra. L’assenza degli Architetti ha aperto la città ad altre figure in grado
di esplorarla: i sociologi, gli psicologi, i climatologi, gli alimentaristi, i criminologi, i giornalisti, i poeti, gli economisti, … persino i preti, attraverso parole e immagini, descrivono le contraddizioni della contemporaneità costruita. Aprono strade come urbanisti all’interno di ignoti territori della convivenza. Pianificano paesaggi artificiali, anticipandoli con precisione infinitamente maggiore delle sterili macchie di colore su un plottaggio a bandiera.
Se l’analisi, la sintesi e persino il progetto del futuro di una città come Taranto si colgono realisticamente soltanto nei libri d’inchiesta, nei disegni dei bambini o nei film ambientati tra gli spazi del quotidiano, allora gli architetti devono colmare la loro carenza etica e culturale per
aprirsi all’approccio multidisciplinare. Necessità di senso, ma anche di dignità, di un ruolo che è quotidianamente negato dall’immagine della periferia contemporanea.
Decenni di non luoghi (Augè) non hanno scalfito la sete di astronavi da rivista, fino al battesimo dei superluoghi: i «grandi impianti architettonici in cui infrastrutture e funzioni si sommano dando vita ad ambienti standardizzati, pensati per il consumo da parte di folle che lì
si incontrano senza necessariamente entrare in relazione» (La civiltà dei superluoghi, a c. Agnoletto, Delpiano, Guerzoni, Bologna, Damiani 2007). La spersonalizzazione dell’uomo nella città-meccanismo disegnata, avulsa dal senso di identità, ha prodotto moltitudini di non
persone che sfuggono ad ogni logica di integrazione e pianificazione (A. Dal Lago, Non persone, Feltrinelli 2004). Il formalismo marziano dell’architetto di provincia, stretto tra logiche costruttive decrepite e finiture da ultimo grido, è immune alle teorie del determinismo urbano
(J. Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, 1961; O. Newman, Architectural Design for Crime Prevention, New York 1971). Salvo, poi, lamentarsi del degrado sociale e della lesa maestà di “creatore” quando i bisogni vivi delle persone e dei gruppi si esprimono attraverso l’azione individuale autoreferenziale o la rifunzionalizzazione abusiva ma condivisa di strutture architettoniche ed urbanistiche inadeguate. Gli architetti si sentono estranei alle vicende delle banlieu francesi, dei campi rom, o alle rivolte dei ghetti di Malmö. Lì, invece, emerge il conflitto sociale prodotto dalla segregazione urbana. La città dei
satelliti e delle unità funzionali, diventa la città insostenibile della divisione, della stigmatizzazione delle condizioni sociali, dei muri. E gli architetti, da sempre, sono molto bravi a disegnare muri…
Ma quali sono gli scenari della città sostenibile? Ad aprile 2009, a Roma si è svolta Ecopolis, una manifestazione «dedicata al tema della vita nell’ambiente urbano [per i] responsabili
della qualità della vita delle persone nelle grandi città, in grado di presentare esperienze, tecnologie e progetti per costruire contesti urbani realmente sostenibili» (http://www.ecopolis.fieraroma.it/). Tra le conferenze tenute sullo sfondo di postazioni di operatori delle tecnologie ad impatto zero e speculatori dell’ecologia di facciata,
è stata presentata una ricerca svolta dall’Urban Design Lab, Earth Institute della Columbia University dal titolo: Urban Climate Change Crossroads (a cura di R. Plunz e M. P. Sutto). Gli incroci di cui si riferisce nel titolo sono sia quelli tra modelli urbani e impatto sul clima, sia quelli metodologici tra settori disciplinari che devono necessariamente trovare forme di dialogo per operare efficacemente.
Tra le righe degli interventi di diversi specialisti, l’architettura è “gentilmente” invitata ad abbandonare − come fece a suo tempo la pittura di Dalì − la cornice delle squadrature inkjet con la mascherina, per incontrare in maniera propositiva la realtà implementando l’analisi, la partecipazione, l’ambiente e la tecnologia. L’importanza ambientale dell’edilizia si coglie considerando che oggi le città assorbono energie responsabili del 78% dei gas serra e che
nel 2050 il 75% della popolazione mondiale risiederà nelle città. Non è esagerato affermare, dunque, che l’industria delle costruzioni è, in assoluto, la più dispendiosa e distruttiva delle attività umane (R. Plunz, p.9).
Le città sono, quindi, protagoniste nei processi globali per la sostenibilità e la loro azione comporta la “mitigazione”, delle cause del dissesto con variazioni nel sistema strutturale, economico e sociale; oppure l’”adattamento” progettuale agli effetti del surriscaldamento e
della desertificazione. L’approccio internazionale più diffuso mescola entrambe le azioni attraverso processi concertativi che coinvolgono i portatori di interesse, i pianificatori e il settore privato (C. Rosenzweig, p. 40). Prendendo a riferimento Taranto, invece, l’atteggiamento
prevalente sembra essere l’inerzia, per la quale tutte le esternalità dell’impatto ambientale ricadono sulla cittadinanza.
Secondo il concetto di Giustizia ambientale introdotto già a partire dal 1980 negli Stati Uniti (J. Sze, p.11), esiste una grave disparità nella gestione dello spazio e delle risorse sia a livello mondiale, attraverso stili di vita e consumi; sia a livello urbano, con la gerarchizzazione ambientale, architettonica, infrastrutturale degli spazi della città, che portano a vistose sproporzioni tra classi sociali. Taranto, con i suoi quartieri popolari degradati e schiacciati contro l’industria pesante, con l’isolamento spaziale e la carenza dei servizi, rappresenta un
esempio in grado di tradurre persino in termini di aspettativa di vita, oltre che di benessere, gli effetti pianificatori di logiche elitiste. Un’attualità tristemente anacronistica, in una fase in cui, altrove, le città vengono valutate non più in base al Prodotto interno lordo (PIL) ma al Benessere interno lordo (BIL). Quest’ultimo fattore è in grado di interpretare meglio le tendenze del
popolamento urbano e sostanzia i fenomeni di emigrazione e immigrazione su scala più vasta.
La percezione del benessere interessa anche la competizione tra le città in termini energetici,
territoriali, economici, occupazionali ed i processi di aggregazione metropolitana da
governare in modo sostenibile (M. Caroli, p. 58).
Il termine governance è ormai uno slogan del tecnicismo politichese, ma se lo intendiamo e
sviluppiamo nella sua valenza urbana di «pratiche di organizzazione dell’azione collettiva» (H.
Bulkeley, p.30) diventa il motore della capacità di discussione e di gestione costruttiva dei conflitti, attraverso il dialogo e il consenso partecipato (M. Sclavi, p. 103). Tra i tanti modelli collaudati i più noti sono quelli di Agenda 21, mentre le aree vaste, pur essendo strategiche, stentano dalle nostre parti ad abbandonare la logica lideristica e dirigistica.
Il tema governance e sostenibilità riporta alla mente la 10. Mostra Internazionale di Architettura
di Venezia. Nel corso della kermesse, vennero esplorate in maniera spettacolare le megalopoli
mondiali, poste ad un bivio esistenziale di gestione o esplosione.
La città fu riconosciuta come forma insediativa vincente in grado di creare e sviluppare reti
di polarità infinitamente più funzionali e produttive di quelle tra stati. «Il paradosso urbano per definizione,[…], è un’equazione profondamente spaziale dall’enorme potenziale democratico» per cui «la forma che attribuiamo alla società influenza la vita quotidiana di chi vive e lavora nelle città» (R. Burdett, M. Kanai, La costruzione della città in un’era di trasformazione urbana globale, in Città. Architettura e società, Marsilio,Venezia 2006, vol.1, p.3). La città nasce autonoma e, se supportata da un solido sistema di governance e da una cultura identitaria forte, manifesta questa tendenza nella storica contrapposizione con il potere centrale (D. Bidussa, Diario, cit., p.60).
Saskia Sassen è una delle più note sociologhe ed economiste mondiali, che ha indagato il ruolo delle città su scala internazionale mettendolo in relazione con il dinamismo del tessuto sociale e
spaziale. I risultati della sua ricerca sono sorprendenti: il motore della diversità e della densità che alimenta le città costituisce il sostrato dinamico che permette di reagire velocemente e in
modo sostenibile ai processi di cambiamento globale. «Le città di oggi costituiscono il terreno su cui persone di tutto il mondo si incrociano con modalità non possibili in alcun altro luogo».
Nella città sana e sostenibile, «nella misura in cui potenti attori globali avanzano crescenti richieste di spazio urbano rimuovendo, perciò, da esso fruitori meno potenti, lo spazio urbano si politicizza nell’atto di ricostruire sé stesso». In questa complessità positiva, «l’informalità sta imponendosi come nuovo tipo di economia collegato ad aspetti fondamentali del capitalismo avanzato». Ciò consente a professionisti e creativi di «lavorare negli interstizi degli spazi urbani e organizzativi, sfuggendo alla corporativizzazione» (Perché le città sono importanti, in Città…, cit., p.43) Le città libere governano attivamente l’economia e, sono in grado di agire all’interno dei propri territori con la pianificazione ma soprattutto in modo informale, attraverso «una rivalutazione dei terrains vagues e degli spazi più modesti, dove le abitudini della gente possono contribuire alla creazione dello spazio pubblico». Questa riqualificazione spontanea si avvicina al “restauro ecologico urbano” introdotto da Plunz che indica nel territorio consumato e degradato all’interno delle città la risorsa economica su cui impostare una strategia di accumulazione naturale e risparmio ecologico (Urban Climate …, cit. p.6).
La frontiera dell’informalità, governata con l’azione condivisa, rappresenta una sfida rilevante della sostenibilità urbana in chiave macro e micro-economica. Assumendo che “la città è partecipazione” e ripensando la città-macchina come cittadinanza, reale corrispondenza di forma e contenuto, si dischiudono prospettive creative che superano i concetti tradizionali di abitazione e urbanità: l’ancien régime degli architetti.
Da alcuni anni, Architetti Senza Frontiere conduce un’indagine sull’abitare informale e sui meccanismi della lettura e appropriazione dello spazio da parte di gruppi marginalizzati. Si promuove la progettualità partecipata per affrontare il disagio abitativo, le
soluzioni per i richiedenti asilo, l’autocostruzione con soggetti deboli (http://www.asfitalia.org/). Su basi simili, gli Ecomusei Urbani Metropolitani, fondono innovazione delle politiche di conservazione e valorizzazione partecipativa del patrimonio culturale. L’Ecomuseo
Urbano di Torino (Eut, 2004), sta elaborando la Carta per il Patrimonio culturale urbano sviluppando la capacità di stabilire in primis quale patrimonio davvero appartenga ad una comunità consapevole. Nella mappa partecipata di Niguarda (www.tramemetropolitane.it), con
l’ausilio del Politecnico di Milano si sta sperimentando un Gis (http:// quidtum.wordpress.com/) per stratificare dati creando un’interazione tra l’elemento tecnico e quello partecipativo. Per il proprio Piano di governo del territorio, il Comune di Canzo ha adottato l’“epartecipation”:
i cittadini segnalano i loro punti di vista sul territorio in un blog georeferenziato (S. Dell’Orso, Un ecomuseo urbano, http:// www.arcipelagomilano.org/?p=2722). In Salento, la rete ecomuseale
si concentra sul rapporto cultura popolare/promozione (http://www.ecomuseipuglia.net/).
Siamo agli albori della «coproduzione della città con interventi non frammentari sull’insieme urbano. Qui si apre la strada più ricca e suggestiva dell’architettura di partecipazione, quella che riguarda il recupero e l’indicazione della ricomposizione della città dal punto di vista degli abitanti in quanto società civile, in aperto dialogo con le autorità cittadine e con i responsabili dei progetti stimolati dall’iniziativa privata capitalista […]. Ci troviamo dunque nell’agone della lotta per la città […] che speriamo sia più umana, più libera e più democratica» (C. Gonzàlez Lobo, in Architettura, partecipazione sociale e tecnologie appropriate, Jaca Book, Milano 1996, p.113).
La realtà urbana tarantina è ancora molto distante da questi modelli sostenibili e partecipativi. Tra le poche iniziative per la promozione della creatività e dell’informalità spicca l’azione delle Politiche Giovanili della Regione Puglia (Bollenti Spiriti, Principi Attivi, ecc), in cui anche molti giovani architetti cercano di ridare senso sociale e culturale all’architettura attraverso l’innovazione e l’azione partecipata sul campo.
Senza vitalità e consenso, in un sistema prevalentemente oligarchico e chiuso, la città è condannata al consumo delle proprie risorse e ad una lenta necrosi implosiva, dove gli architetti, perso il proprio ruolo, saranno sempre più simili ai mille vigili di Eliot «che dirigono il traffico
e non sanno dirvi perché venite né dove andate» (T.S. Eliot, La roccia, Bibl. via Senato, Milano 2004, p.77).

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